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 2024  settembre 21 Sabato calendario

Intervista a Oscar Farinetti, fondatore di Eataly

Oscar Farinetti, il 24 settembre compie 70 anni. Qual è il suo più grande rimpianto? 
«Aver studiato poco da giovane, quindi aver scoperto la letteratura, l’arte e la fotografia a 50 anni. Però preferisco avere rimorsi che rimpianti».
Allora il rimorso più grande?
«Un mio caro amico aveva un grave problema di alcol. Ho cercato di aiutarlo offrendogli un posto di magazziniere, che ha mantenuto per dieci anni. Però rubava, un giorno le telecamere lo hanno inchiodato e l’ho dovuto licenziare. Dopo un mese è morto, bruciato vivo nella sua mansarda perché si era addormentato fumando. Questa cosa mi ha dilaniato. Tornassi indietro non lo licenzierei, spiegherei ai colleghi che tenerlo è un gesto d’amore».

Ed è l’unico momento in cui vacilla l’entusiasmo del fondatore di Eataly, già proprietario di Unieuro, autore di diciassette libri (due pronti per le stampe e altri 30 nel cassetto), una moglie (Graziella), tre figli (Francesco, Nicola e Andrea), tre nipoti (Celeste, Paolo e Anna India). Ci incontriamo alla periferia di Bologna nel suo Gran Tour Italia, terza versione riveduta e corretta di Fico, quella Disneyland del cibo inaugurata il 15 novembre 2017 citando niente meno che la Tour Eiffel.
Un paragone azzardato.
«Tutto azzardato! Ma io faccio sempre così. Dissi che avrebbe fatto 6 milioni di visitatori e si fermò a tre. Non ho mai imbroccato un budget. Quando aprimmo a New York profetizzai: faremo 50 milioni di dollari, e tutti a dire che ero matto. Poi ne ho fatti 84 il primo anno. Ora ne fa 105».
Il taxista che mi ha accompagnato ha parlato di «accanimento terapeutico».
«Peccato. Portano le persone in un luogo che dà 150 posti di lavoro. Io invece di loro parlo benissimo, li trovo molto professionali».
Perché ha reinvestito qui?
«Per chiudere un cerchio. Questo posto lo avevo disegnato, ma non lo gestivo io. Poi è arrivato il Covid. Ma anche dopo la pandemia continuava ad andare male e davano tutti la colpa a me. Quindi l’ho ricomprato, ho ripianato i debiti e l’ho rifatto come gesto d’onore. Se perdo anche un po’ di soldi cosa mi cambia? È il mio modo di fare il missionario. Ma sono convinto che nel 2026 andrà in pari».
Lei si chiama Natale Oscar Maria Farinetti. Nei documenti firma con tutti i nomi?
«No, solo Natale. Sono dovuto andare in Municipio: avrei voluto tenere Oscar, ma era il secondo nome e non fu possibile».
Portò sua moglie in viaggio di nozze a Venezia in un hotel a una stella, con il bagno in comune: è tirchio?
«Ero povero, non tirchio! Dopo le nozze siamo andati in affitto in una casa popolare a 37 mila lire al mese. Non avevamo il becco di un quattrino, solo debiti. Mi ha salvato mia moglie, che faceva la supplente di matematica e poi ha vinto il concorso all’istituto bancario San Paolo: grazie a lei ogni 27 del mese arrivavano 600 mila lire».
A farle capire che era la donna giusta fu un’aspirapolvere: non si può sentire.
«Ma è una scena romanticissima, la immagini al rallentatore: lei che arriva nel mio stand alla Fiera del tartufo di Alba e io che penso: “Se mi dà l’aspirapolvere le dico grazie e va bene. Ma se mi chiede dov’è la spina e si mette a pulire, questa me la sposo”».

Come festeggerà i 70 anni?
«Odio le ricorrenze. E ho minacciato Graziella di non organizzarmi una festa a sorpresa. Per adesso in agenda ho lasciato in bianco la data».

Che nonno è?
«I miei nipotini chiamano mia moglie la nonna e me il marito della nonna. Li ho pregati di continuare: non ci sono mai, lavoro come a 40 anni. L’ultima nipote è arrivata sei mesi fa, Anna India, la figlia di Andrea. Celeste, la primogenita di Francesco, è nata quando ho aperto Eataly a New York, nel 2010; il fratello Paolo tre anni dopo. Il papà mi ha fatto il regalo immenso di dargli il nome del nonno».
Suo padre, il Comandante.
«Ho avuto un bel colpo di fortuna a nascere figlio di un partigiano. La fortuna più grande sarebbe stata nascere nel 1922 e farlo anche io».
Non ha visto tutti i suoi successi. Le spiace?
«Mi dispiace che non sia stato presente quando mi hanno consegnato le due lauree honoris causa. È mancato nel 2009; sapeva che nel 2010 avrei aperto a New York».
Gli elettrodomestici li compra da Unieuro o da MediaWorld?
«Solo da Unieuro! Non esiste sputare nel piatto dove hai mangiato. E niente online: va mia moglie di persona».
Lei non ci va?
«No, io non entro in un negozio da quando sono sposato: né abbigliamento, né scarpe o calze. Sono un mercante che fa luoghi di retail, ma odio fare il cliente. Tranne le librerie, lì ci vado. Poi a volte chiedo alla mia assistente di comprarmi un libro su Amazon. Jeff Bezos è un genio assoluto, la persona che ammiro di più nel digitale».
L’ha conosciuto?
«No, mi piacerebbe».
Nel biglietto da visita come si qualifica?
«Biglietto da visita? Mai avuto. Su Wikipedia sono imprenditore, dirigente d’azienda e scrittore. Vorrei che lo scrittore passasse dal terzo al primo posto».
Se dovesse regalare un suo libro a chi non la conosce, da quale partirebbe?
«Da Quasi, la mia raccolta di poesie. Quella sull’egoismo è la mia preferita».
Le manca un romanzo.
«L’ho già scritto. Ma prima pubblico 21 racconti ispirati ad altrettante fotografie di Bruno Murialdo».
Non è da megalomani un’autobiografia di 600 pagine?
«Intanto Never quiet è un libro bellissimo, scritto da Dio. Me ne sono perfino pentito, ma ho pensato: magari muoio. Se lo facevo di 250 pagine vendevo centomila copie. Ne ho vendute 60 mila».
L’ha aiutata Baricco?
«Non direttamente, ma indirettamente da morire: stare con lui mi piace da matti, è lo scrittore che stimo di più in assoluto. Pure Scurati».
Mai tentato dalla politica?
«Mai. Al limite potrei fare il vicesindaco, come mio padre, nel mio paese Novello. Oggi la politica è in mano in gran parte ai mediocri: si preoccupano più della figura che faranno che del bene della comunità».
A quale negozio Eataly è più affezionato?
«Al primo e all’ultimo. Il primo è quello di Torino, e uno degli ultimi è a Trieste».
E all’estero?
«Toronto, perché il Canada è bello come New York e perfetto come la Svizzera. Ed è aperto al mondo, è facile diventarne cittadino. Noi abbiamo bisogno degli immigrati e di passare dall’integrazione all’interazione. Io posso aprire negli Usa perché chi è andato prima di me gli ha insegnato a fare pasta e pizza».
L’errore che non rifarebbe?
«Il più clamoroso: aprire prima Tokyo di New York. Sono stato proprio un cretino. L’imprenditore quando si monta la testa, e io spesso me la monto, si sente invincibile. Pensavo: devo partire dalla salita. E invece no, bisogna partire dalla pianura, in discesa, così ti fai le gambe».
In Giappone come va ora?
«Molto meglio, perché l’ho venduto a Mitsui. In Oriente devi andare in franchising».
Di Renzi è sempre amico?
«Certo, gli voglio anche molto bene. Non approvo metà o tre quarti delle robe che fa ultimamente, ma glielo dico. Il problema è che sta sul cavolo agli italiani. Come Napoleone, che era cento volte più forte di Wellington, ma ha perso perché aveva tutto il mondo contro».
Quale personaggio l’ha emozionata di più?
«Tonino Guerra, mi ha cambiato la vita. Ero andato a cercarlo per la pubblicità di Unieuro. Mi ha insegnato a mettere un po’ di poesia nelle cose che faccio».
Vuole esportare il modello Grand Tour Italia all’estero?
«Vediamo se riesco in Cina: finché non firmi e non arriva il bonifico non sei sicuro».
La sua madeleine?
«I peperoni con la bagna cauda mi mandano fuori di testa».