il venerdì, 20 settembre 2024
Intervista a Francis Ford Coppola
Non ce ne sono più tanti di personaggi capaci di suscitare un po’ di emozione mentre stai per intervistarli. Quindi, anche se fa il vago su qualche domanda e tira fuori un buonismo un po’ nonnesco in qualche risposta, è una gran bella soddisfazione conversare con Francis Ford Coppola. Ed è ancora più soddisfacente constatare che, nonostante le insinuazioni di rimbambimento sibilate sul set del suo chiacchieratissimo
(e imperdibile) Megalopolis, questo grandioso cineasta di 85 anni è lucido, ironico, spericolato e pieno di progetti per il futuro.
Ospite alla Festa del Cinema di Roma il 15 ottobre, con proiezione introdotta dal regista, e dal 16 nelle sale, Megalopolis a Cannes aveva diviso i giudizi: per alcuni un capolavoro visionario, per altri un accrocco kitsch, semplificando molto. C’è Cesare Catilina (Adam Driver), architetto geniale e ambientalista, dotato del superpotere di fermare il tempo, che vuole rifondare New Rome con i criteri e i materiali di una futuristica bioarchitettura: la città, che potrebbe benissimo essere New York, è stata devastata da un disastro spaziale. C’è il sindaco Franklyn Cicerone (Giancarlo Esposito), reazionario e corrotto, che si oppone a ogni innovazione ecologista e sta dalla parte della più avida e retriva speculazione edilizia. E poi c’è Julia (Nathalie Emmanuel), la figlia del sindaco che, con qualsiasi toilette, non si separa mai dalla sua borsa Chanel nera da undicimila euro: all’inizio è molto frivola, ma poi l’amore che sboccia con l’architetto ha un benefico effetto sulle sue sinapsi e sulla sua etica. Intorno, molti parenti, amanti, clientes in un’opulenta decadenza in bilico fra Gli ultimi giorni di Pompei e Il falò delle vanità. E un po’ di sconcerto per lo spettatore italiano abituato dal liceo a considerare Cicerone un giusto e Catilina un cattivo soggetto che abusa della pazienza nostra, mentre qui è tutto il contrario. Va detto poi che, nel press book, ogni riferimento alla storia romana viene spiegato, quasi sillabato, come se il pubblico non ne sapesse niente, ma proprio niente, e anche questo a noi lontani eredi dei Cesari fa un po’ strano.
Guardando Megalopolis si può essere sopraffatti dalla sensazione che dentro c’è la storia del cinema, ma anche della cultura. Autori, film, pensieri baluginano tutti insieme, senza farsi individuare. Poi una sua dichiarazione chiarisce un po’ le cose: «In quest’opera, non avrei potuto fare a meno di stare, come faccio di solito, sulle spalle di...» e giù una sfilza di 44 nomi, esclusi i profeti, da George Bernard Shaw a Colleen McCullough. Come li ha mixati?
«I grandi artisti diventano parte di te, li mescoli nella tua anima. Picasso sosteneva che gli artisti da poco prendono in prestito, i grandi rubano. Ma il trucco è rubare ai migliori».
Nella sfilza non figura Fritz Lang, il regista di Metropolis al quale il suo film è stato accostato.
«Lang era un grande, ovvio. Ma visto che il titolo del suo Metropolis suona abbastanza come Megalopolis, la gente potrebbe pensare che il mio derivi dal suo. Invece metropoli e megalopoli sono parole con significati diversi: la prima indica una città moderna, la seconda una città gigantesca. Il mio film è ispirato da tanti importanti registi, incluso Lang, ma Metropolis è la storia di un mondo che vive su due livelli: i ricchi in superficie e i lavoratori sottoterra. Questo non fa parte della mia visione, anche se è una grande visione».
Lei quanto dorme di solito? E quante ore al giorno lavora?
«La mia cara moglie mi diceva sempre di far riposare un po’ il cervello, ma la verità è che non so come farlo riposare. L’unico modo è lavorare su un progetto diverso da quello su cui sono impegnato, però non è un’alternativa tanto riposante. C’è chi fuma o beve per staccare un po’, ma io non sono un grande bevitore».
E le canne se le fa ancora?
«Non tanto, perché uno degli svantaggi del fumare erba è che, sebbene aiuti la concentrazione, fa venire anche una gran voglia di mangiare. Alla mia età è facile metter su peso, non si vedono tanti ottantacinquenni da un quintale e oltre: non sarei più qui se fossi grasso. Comunque dormo sette ore a notte».
Mica poche.
«Ma la sera, quando vado a letto, ho sempre un libro che mi aspetta. Dovrebbe rilassarmi, distrarmi, invece ho scoperto che non è così: qualsiasi cosa abbia letto per distogliermi da Megalopolis non mi ha distratto per niente, ma mi ha fatto cambiare il modo di realizzarlo. Quindi nessun relax, ma ulteriore fatica per trovare un’altra direzione».
Come si fa a portare avanti il progetto di un film per quarant’anni?
«Non ho lavorato ininterrottamente a Megalopolis per quarant’anni, non mi sono fossilizzato, ma ho cercato di scoprire che tipo di progetto avrei realizzato da vecchio, che stile mi sarebbe interessato, più avanti negli anni. Perché io ho fatto tanti film con stili diversi: molto classici, oppure, quando ho lavorato con Vittorio Storaro, liberi e selvaggi. Per anni ho tenuto dei taccuini con le diverse cose che leggevo, o vedevo sui giornali, anche le vignette politiche. Quei taccuini si sono evoluti in Megalopolis».
E cosa rappresenta per lei questo film?
«Sa perché fin dalla nascita del cinema ci sono sempre state delle storie romane? Perché non c’era copyright, quindi costavano poco: i primi registi non volevano certo comprare un libro e pagare i diritti d’autore per fare il loro film. E c’erano tutti gli elementi che piacevano al cinema: l’azione con i gladiatori e i combattimenti; la violenza; le donne sexy che controllavano tutto, come Agrippina o Livia. Inoltre, il genere peplum poteva sempre sostenere qualsiasi idea o regime politico, di destra come di sinistra: sotto Mussolini legittimava il fascismo. Al Duce lo aveva suggerito D’Annunzio, quello che ha preso Fiume. Sarebbe interessante fare un film su Fiume: vicenda pazzesca, qualunque cosa sia successa. E poi ho letto che gli Stati Uniti erano stati fondati sul modello di Roma: uno spunto interessante per un’epopea sword and sandal in cui l’America fosse Roma. Nasce così la metafora di Megalopolis. Perché proprio come, duemila anni fa, Roma perse la repubblica e si ritrovò con un impero, oggi l’America rischia di perdere la sua repubblica, forse per le stesse ragioni».
La domanda era più personale, cose del tipo: Megalopolis è la summa del suo cinema? La sua opera testamento? Ma comincio a pensare che non lo consideri l’ultimo film.
«In effetti ne ho in programma uno più ambizioso e sperimentale, spero di vivere abbastanza per portarlo a casa: quello potrebbe essere il mio ultimo film. E poi ce n’è uno più piccolo che voglio girare in tutta Europa, questo dovrebbe costare meno, i soldi se ne sono andati con Megalopolis».
Che, vista la tumultuosa lavorazione, potrebbe essere il soggetto di un altro film: la rivolta del reparto effetti visivi che si sentiva esautorato, gli orrendi pettegolezzi sul set, le accuse smentite di molestie alle comparse, il trailer con le false recensioni negative ritirato con tante scuse dalla distribuzione americana. E poi il rapporto con i collaboratori, quelli fidati: Dean Sherriff, il Visual Concept Designer, che racconta i vostri flussi di coscienza, con lei, sprofondato nella sua poltrona di cuoio, che gli lancia una parola che diventa una visione che diventa cinema...
«Forse qualcosa del genere ci sarà nel mio ultimo film, che ho chiamato Distant Vision, ma potrei chiamarlo anche Dark Electric Vision. È la storia di una famiglia come la mia e della nascita della televisione. Forse la mia vita è, in fondo, solo la vita di un regista solitario che crea la sua realtà, perché sembra che tutti i miei film parlino di me. Nel 1986 ne ho girato uno intitolato Giardini di pietra: raccontava di un uomo che perde suo figlio, e io mio figlio lo persi proprio allora».
È stato doloroso leggere tutta quella spazzatura o ha fatto il superiore?
«Beh, non mi ha fatto piacere. Mia madre mi ha insegnato che una donna va rispettata e non l’ho mai dimenticato. Ho fatto carriera con attrici bellissime per gli ultimi cinquant’anni e non c’è una volta che abbia sentito dire che sono stato irrispettoso nei confronti delle donne. Non lo sono».
In alcuni film, come Peggy Sue si è sposata, Dracula, Un’altra giovinezza, lei gioca avanti e indietro con il tempo. E, in quest’ultimo, il protagonista può anche fermarlo. Perché questa ricorrente ribellione alle leggi del tempo?
«Perché tutti gli artisti hanno sempre voluto controllarlo. Giotto lo faceva con il fermo immagine di una scena in prospettiva. Goethe diceva che l’architettura è musica congelata. Ogni artista ferma il tempo e lo inverte e ci gioca. Soprattutto i registi e il teatro lo manipolano: pensiamo a Pirandello. Quindi, gli artisti controllano il tempo. È questo che dimostra Megalopolis».
E di questi tempi dove girerebbe Apocalypse Now?
«Ovunque ci siano elicotteri americani».
Tutto qui?
«Era quello che mi serviva. Apocalypse Now non si poteva fare senza gli armamenti americani. Le Filippine li avevano. L’America ha detto no. L’America mi ha scaricato».
L’America è in decadenza come Megalopolis?
«È a un punto di svolta, proprio come lo fu Roma quando passò dalla repubblica all’impero. Con le campagne di conquiste c’erano molti soldi a Roma, ma tutti nelle mani dei senatori che difendevano solo i loro interessi personali: lo stesso succede in America».
Gli americani potrebbero vivere una vita decente perdendo l’egemonia mondiale?
«Per me, vedo solo un futuro in cui c’è un’unica famiglia umana, una famiglia in cui ci si rende conto che i bambini, i neonati, non possono essere uccisi, perché si potrebbe uccidere un Archimede o un Mozart o un Verdi. Ogni bambino è prezioso. Non possiamo permettere quello che sta accadendo in molte parti del mondo con queste guerre idiote in cui vengono uccisi dei bambini».
Un personaggio come Donald Trump poteva entrare fra i comprimari di Megalopolis?
«Sì, visto che il mio film è un tentativo di comprendere il mondo per quello che è. Ci sono sempre stati demagoghi che puntano il dito su altri esseri umani accusandoli delle peggiori malefatte».
Che pronostici fa sulle elezioni di novembre?
«Sono una persona molto ottimista. Penso che avremo un governo che riflette la vecchia tradizione americana, sempre fedele alla Costituzione. E poi, diciamolo: l’inflazione non morde solo in America, non c’è Paese al mondo, comprese l’Italia, la Cina, l’India, la Germania, che non invidi la forte posizione economica dell’America. Oggi l’America ha l’inflazione più bassa del mondo. E tutti preferirebbero avere l’economia americana piuttosto che la propria».
Le piace Kamala Harris?
«Molto. È una persona di gran lunga più intelligente e potente di quanto si sappia».
Cosa pensa delle dimissioni forzate di Biden, che ha quattro anni meno di lei?
«Quando è stato eletto, Biden doveva essere una figura di transizione, che avrebbe stabilizzato l’America, cosa che ha fatto, e l’avrebbe consegnata a un gruppo più giovane. Lo aveva detto prima di essere eletto, e credo fosse un’affermazione molto intelligente. Abbiamo bisogno di un governo giovane e, secondo me, abbiamo bisogno di una donna. Perché le donne, come leader, hanno sempre protetto l’essenziale. Anche mille anni fa, con il matriarcato, la donna si assicurava sempre che ci fosse abbastanza acqua, abbastanza cibo. Le donne sono caregiver. Le donne danno la vita. Le loro priorità sono quelle di cui abbiamo bisogno oggi sulla Terra. Una donna al governo farà un ottimo lavoro. Ce ne sono state in Finlandia e in Nuova Zelanda, e ora ce n’è una in Danimarca».
Se è per questo, ce ne sono state alcune anche nel Regno Unito e ora ne abbiamo una in Italia.
«Beh, questa è un’altra storia. E la dimenticheremo».
Da quando non viene a Bernalda, il paese in Basilicata da cui partì suo nonno?
«Più o meno sette mesi».
Come ha trovato l’Italia?
«Molto turbata, come l’Europa. Ci sono ideologie che vanno nella direzione sbagliata. Non sono in grado di esprimere un’opinione politica su Giorgia Meloni, posso dire che non condivido per niente il suo orientamento. Tornare a queste idee fasciste è antiquato e stupido».
La sua indole antiautoritaria si è vista anche nei frequenti dissidi con le produzioni.
«Come l’industria alimentare spende centinaia di milioni di dollari per farci diventare dipendenti dalle patatine, così le grandi produzioni ripropongono sempre lo stesso tipo di film da cui è impossibile staccarsi. Ma il cinema non è la Coca-Cola, è arte, e l’arte cambia, con ogni generazione. Se dico alla produzione che voglio fare qualcosa, rispondono che non posso farla. Allora chiedo perché e qualcuno mi spiega: perché non è così che si fanno i film. Beh, non voglio che mi si dica come si fanno i film. Voglio crearlo io il modo in cui si fanno i film. Per questo ci metto i miei soldi, ma poi, anche quando ci metto i miei soldi, cercano di dirmi che non è così che si fa».
Nella sua vita, l’amore per il rischio è sempre stato sotto controllo o a volte ha esagerato?
«Non ho mai il controllo. Cerco di avercelo, ma il film si fa da solo, i collaboratori ci giocano e il film ordina: fai questo, fai quello».
Intendo il rischio anche in termini di denaro.
«Non credo nel denaro. Non so cosa sia il denaro. So cosa sono gli amici, non il denaro».
Quanta parte della sua proprietà a Napa ha venduto per questo film da 120 milioni di dollari?
«Non ho toccato nessuna delle mie proprietà a Napa. Ho venduto un’altra azienda vinicola a Sonoma, dove non avevo più qualcuno che la gestisse. I miei figli Roman e Sofia sono tutti e due registi, vogliono avere le vigne per poter spedire il vino ai loro amici a Natale, non per occuparsene. I miei figli hanno tutti successo».
In uno dei suoi ultimi film, Tetro, si racconta di un padre genio che non concede spazio a nessun altro eventuale genio in famiglia. Nella sua, di famiglia, come vanno le cose?
«Tutti gli esseri umani sono geni. Io sono solo un essere umano. Tutti abbiamo i doni del genio. Forse non quelli che desideriamo, ma li abbiamo».
Visto che ha sempre lottato con le produzioni, che atteggiamento ha quando produce un film di Roman o Sofia?
«Insisto che il film sia personale, perché il regista è un individuo unico su un milione. Quindi il suo lavoro deve essere molto personale, solo così sarà diverso da quello di chiunque altro».
Ma se vede una scelta personale che non funziona non interviene?
«No. Ai miei figli ho sempre detto: fate quello che volete. Fate quello che amate».
Ultima domanda, un po’ cretina: perché Julie si porta sempre dietro la Chanel? Che cosa rappresenta?
«Non ne ho idea. Dovremmo chiederlo a Milena Canonero, la costumista. Milena è un genio».
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