La Stampa, 20 settembre 2024
Intervista a Deborah Levy, scrittrice
Incontrare Deborah Levy è come sentire la sua voce, oracolo, emergere sulla superficie del testo. La sua scrittura ha plasmato una nuova posa, un modo di stare al mondo, sulla soglia tra literary non fiction ed esperienza autobiografica. C’è un prima e un dopo Levy per gran parte dei suoi lettori. Eppure lei, di recente al Festivaletteratura di Mantova, tre volte finalista al Booker Prize e tra le più significative scrittrici inglesi – autrice di un caso letterario in tre volumi pubblicati in Italia da NN e di romanzi tra i quali A nuoto verso casa (Garzanti) – sembra non dare troppo peso all’influenza che ha esercitato ed esercita. Con un timbro di voce teso all’ascolto, crea simbologie persino quando risponde alle domande di un’intervista. Al centro della rete simbolica questa volta è la casa, luogo reale e dell’immaginario che si dipana in Bene immobile, terzo volume dell’"autobiografia in movimento”. Nello spettro semantico tra alcova e gabbia, in perenne dialogo intellettuale con il lettore, Levy parlando in prima persona allarga il prisma a includere i fantasmi che infestano luoghi comuni e domestici. Per tracciare l’architettura collettiva e l’inventario dei beni, reali e immaginari, che ruotano attorno all’idea di corpo in continua relazione con lo spazio e il tempo.La casa è una metafora. Ogni casa ha un inventario o corollario immaginario, invisibile…«Il modo in cui plasmiamo e immaginiamo le case è una forma di utopia tascabile. Pensare a un tavolo e a una sedia significa immaginare chi inviteremo a cena a quel tavolo, se ci saranno i fiori o da che lato la luce entrerà dalla finestra. Le nostre case irreali, le case che abbiamo immaginato, dicono tanto di noi. Persiane dipinte, spalancate su un giardino, un camino. Credo che tutti noi abbiamo una casa immaginaria. Il filosofo Gaston Bachelard sosteneva che potremmo scrivere la nostra autobiografia semplicemente prestando attenzione a ogni porta che abbiamo chiuso e a ogni porta che abbiamo aperto. Penso alle consuetudini, per esempio tenere la luce accesa, da bambini, quando si ha paura o per la prima volta realizziamo l’idea della morte. La casa è un luogo reale e irreale al tempo stesso».In Bene immobile la simbologia della casa segue una nuova narrazione dell’io. Dare soggettività ai personaggi significa «restituirne anche i desideri», scrive. Perché le interessa disimparare ciò che abbiamo assimilato sulle forme codificate dell’abitare in relazione con l’altro?«Non parlo del matrimonio come costrutto culturale. È piuttosto una domanda esistenziale: come facciamo a inventarci codici per le nostre relazioni umane evitando quelli consueti? È questa la domanda dei miei libri. Ha anche a che vedere con il modo in cui siamo in costante cambiamento. Come facciamo a dare voce a noi stesse? Ci hanno insegnato a non prenderci sul serio. Inventare un altro modo di stare al mondo, più a contatto con la natura, è possibile. D’altra parte, ho un profondo rispetto verso la creazione di una casa».La casa è anche simbolo di spazio inghiottito dall’idea di focolare di stampo patriarcale. In che modo la simbologia della casa si lega a connotazioni di genere?«La casa è ancora uno spazio correlato al genere. Penso alle donne che hanno investito energia e tempo per creare una casa per gli altri, le rispetto, rispetto il tentativo di essere artefici della felicità altrui. La vera domanda è come possiamo creare un luogo dove ci sentiamo più a casa nel mondo, lontano dalla violenza dello sguardo? Tutti dicono sempre alle donne cosa indossare, cosa pensare, come deve essere il loro corpo, come amare, come vivere la loro vita. Io non offro risposte. Non è questo il mio compito. Penso a come costruire una casa che sia differente. Fuori dalle strutture patriarcali».La sua scrittura è politica, i corpi lo sono.«Essere al mondo, attraversare le strutture della società, lo è. Non credo solo che l’arte sia politica ma che sia piuttosto qualcosa che abbia a che fare con l’intero genere umano. Ciò che maggiormente cattura la mia attenzione sono le relazioni, tutti i miei libri e la mia scrittura hanno al centro le interazioni e il modo in cui costruiamo relazioni. Dobbiamo trovare nuovi modi di vivere che non espongano i nostri corpi alla violenza dello sguardo. Tutto inizia e finisce nei miei libri, sono più esplicativi di quanto non lo sia io».Ho letto che suo padre era un attivista, è vero?«Vero. Mio padre era uno storico e un attivista politico in Sudafrica. Sono nata lì. Lottava per la democrazia. Era un docente e la sua materia di indagine era la filosofia delle idee. Ricordo i libri di Hegel e Marx in casa. Ci avrebbe voluto tutti sociologi, noi figli, invece, siamo diventati tutti artisti».La voce del lettore è un’eco presente nella sua scrittura, quasi ci fosse un rapporto intimo e misterioso tra chi scrive e chi legge...«Quando scrivo cerco di instaurare una conversazione molto intima con il lettore e, allo stesso tempo, di sollevare domande universali. Il ruolo del lettore nel mio processo creativo cambia ogni volta, scrivo romanzi, poesia e sto scrivendo anche un testo per il teatro. Quello con il lettore è un rapporto che da sempre mi incuriosisce. Anche da lettrice. Decido di smettere di leggere un libro quando non mi interessa il modo in cui l’autore pensa. Può esserci una struttura testuale perfetta ma, se non mi interessa la voce dello scrittore, c’è poco da fare. I libri sono scambi di pensieri tra autore e scrittore. La mia scrittura è pervasa dalla fantasia sui lettori, così come chi legge probabilmente si immagina l’autore nell’atto creativo. Partecipiamo al processo insieme».E ora sta scrivendo?«Sì, sto lavorando a due idee. Una è un romanzo, non dirò altro perché sono superstiziosa. Se lo dicessi, forse, non lo scriverei più. Il secondo è il quarto volume della mia “autobiografia in movimento” e continuerò a lavorarci per due o tre anni, credo».