la Repubblica, 20 settembre 2024
Renzo Piano presenta la nuova Torre del porto di Genova
Vista dal mare è di una bellezza commovente la nuova Torre del porto, la Torre dei piloti, sentinella e custode di Genova, forse perché è l’opera, «95 metri di aria e di ferro», che fisicamente più somiglia a Renzo Piano com’è oggi, a 87 anni appena compiuti, in quella che chiama «l’età grande» che «è arrivata di colpo e mi ha sorpreso». Sono entrambi verticali, leggeri e scarni, Renzo Piano e la Torre. «Severa ma quasi sorridente» descrive Arthur Clarke la sua famosa sentinella, quella di Odissea nello Spazio sul Mare Crisium della Luna, il Mare delle Crisi, Genova Crisium. Come il ponte, anche la Torre, che Piano ha regalato alla città, ha la potenza del dolore non declamato: «I piloti morti nel crollo della vecchia Torre furono nove e anche i parenti di queste vittime diedero e danno una grande lezione vorrei dire di stile. Restarono a testa alta anche nella tragedia».
Seguendo la traccia del dolore, sposto Renzo Piano dalla Torre che gli somiglia all’età grande che lo ha sorpreso con la malattia: i medici, la radioterapia, il dottor Jean-Pierre Tarot, con la sua affascinante aria bohémienne, che ogni tanto sbuca fuori non si sa da dove e poi sparisce. È stato il medico di Mitterrand sino alla fine. Adesso non c’è: «Adesso sto bene, ma l’età grande è creativa solo se davvero sai rinunciare al superfluo. Quando abbiamo rifatto il Porto vecchio, Fulvio Cerofolini, il mitico sindaco, disse in perfetto genovese una frase che subito Fernand Braudel acchiappò e tradusse nel suo raffinatissimo francese: «A Genova non si spreca niente». Ecco: nella mia età grande, che è l’età della saggezza e della libertà, questo è il mio comandamento: non posso permettermi di sprecare nulla dell’energia che mi resta, e so bene quello che devo fare».
Sul tavolo, tra i modelli delle torri di Sydney, dell’ospedale di Parigi, e poi Tokyo, la Cina, e New York, c’è un incanto, che accende la ragione e intenerisce il cuore. «È il progetto – spiega Piano – di un’università di legno, in Bangladesh, per tremila ragazze in fuga dall’Afghanistan degli orribili talebani e anche dall’Iran e dall’Iraq. Cos’altro si può offrire alle ragazze alle quali avevano imposto il divieto di studiare?».
È questa la “bellezza buona” che insegue e che lo segue? «Con la bellezza è facile fare retorica, accademia. Ci sono progetti che devi fare e basta. E un progetto minuscolo come questa Torre può diventare un esempio di architettura “bella e buona” perché serve, costa poco, dialoga con il porto, con la luce, con la leggerezza e con l’accoglienza, dunque con la mia vita e con tutto il mio lavoro. Il rapporto tra le catastrofi e i cantieri, non solo edili, è stato a lungo studiato e ne parlammo già per il Ponte. Amo molto quella frase di Papa Giovanni: “Quando un sorriso sgorga dalle lacrime si spalanca il cielo”. Deve essere anche per questa frase che l’hanno fatto santo».
Il crollo della Torre dei piloti avvenne il 7 maggio del 2013, cinque anni prima del crollo del Ponte Morandi, e la nuova Torre sarà pronta nella primavera del 2025, cinque anni dopo l’apertura al traffico del nuovo ponte che «adesso – dice Piano – è diventato paesaggio e vita. Non parla di noi che l’abbiamo fatto, ma di chi ci passa sopra e di chi ci passeggerà sotto, amato e accudito dagli sguardi futuri dei prossimi mille anni».
I dodici, lunghi anni per realizzare la Torre svelano però che “il modello Genova”, quel ponte-lezione, quel miracolo di due anni, è stato un effimero one-hit wonder, la meraviglia di una volta sola. E ora c’è pure l’offesa dell’inaugurazione di una Torre non finita che il ministro Salvini e, spiace dirlo, anche il sindaco Bucci hanno organizzato il 27 settembre, senza i ponti, senza alcuni pavimenti, senza le luci… e senza tante altre cose, non solo di dettaglio. Fra una settimana ci sarà dunque una passerella elettorale, almeno otto mesi prima del tempo giusto, una «mossa», non un fatto ma un fattoide, che avrebbe stupito persino Longanesi. Il suo aforisma «alla manutenzione, l’Italia preferisce l’inaugurazione» a Genova si aggiorna con «la finta inaugurazione». L’incompiuta ha invece fascino per noi che saliamo e scendiamo la lunga scala d’emergenza, ma solo perché Renzo Piano e i suoi affascinanti architetti, Emanuela Baglietto e Mario Giannini, ci spiegano come diventerà la Torre, che già sembra la sorella più bella delle gru del porto e degli alberi delle barche mentre dialoga con l’antica Lanterna.
E ci sarà un ponte al piano terra e soprattutto un ponte illuminato al primo piano che, come dalla canonica alla sacrestia porterà i piloti dagli uffici e dagli alloggi, venti camere con il bagno e 32 posti letto, la cucina e la mensa, ai due ascensori che andranno su e giù per la Torre «come due palline di flipper». Sono arancioni, «che è il colore del salvagente», e in movimento brilleranno di una luce riflessa nel bianco avorio delle quattro colonne portanti di trenta centimetri l’una, stabilizzate dai tiranti, dalle sartie, dai giunti, che visti dalla scala a volte sembrano elevarsi e allungarsi, ma negli snodi si rannicchiano, e fluttuano in alto ma si schiacciano in basso, in un trionfo di bulloni e bulloncini, rondelle, viti, dadi, brugole, ogni asola con il suo bottone: «Amo i bulloni – dice Piano – perché connettono, legano, ma permettono di separarsi facilmente». Alcuni attentati ai treni, negli anni Sessanta, furono eseguiti allentando i bulloni, ma in teatro gli svitati sono i comici surreali come Dario Fo e Jannacci, tutti allievi del più sbullonato di tutti, Karl Valentin del Tingeltangel che saliva su una scala poggiata al cielo.
Con il vento in faccia e gli occhi sul mare, a sinistra si vedono le Cinque Terre, a destra c’è un’enorme bestione di 96 metri che sta entrando in porto con la stessa goffa insolenza del parcheggio, a filo, di un Suv in un vicolo di Roma. I gradini sono 320 e Piano dice: «Quando chiesero a Kissinger centenario qual era il segreto della sua longevità rispose “a handrail, un corrimano”. I vecchi non possono permettersi di cadere. All’età grande è anche indispensabile un corrimano d’affetti, un’infrastruttura sentimentale. Chi non ce l’ha, è perduto. Mi rispettano, credo, ma non mi obbediscono. Anche in studio dove non sono più il padrone. Ho tenuto il 20 per cento e il resto ce l’hanno loro, i miei associati. Per il mio compleanno ci siamo concessi, con Milly e ragazzi, una goliardata a Parigi. Mi hanno festeggiato al Beaubourg, che è la nostra nave. Questa infrastruttura sentimentale, che una volta si chiamava famiglia, è la goccia d’olio che i marinai versano sull’acqua per addolcire le onde. E non è una fuga nella poesia, ma una legge della fisica».
In alto, a 60 metri, c’è la cabina dove, davanti ai finestroni ci sarà il tavolone con la consolle, quattro postazioni, lo schermo. Il compito del pilota è salire sulla pilotina e andare sulle navi in arrivo per guidarle dentro il porto. È a lui che si deve l’entrata con quel movimento agile e rotondo “da cigno” che fece innamorare Hegel. Secondo il filosofo la nave «fa il più grande onore tanto all’arditezza quanto all’intelligenza dell’uomo».
«Nel 2013 non ero ancora senatore – ricorda l’architetto – ma fu Giorgio Napolitano a dirmi dell’incidente che era avvenuto in quella brutta notte. La nave che speronò la Torre proprio nel momento del cambio turno, si chiamava Jolly nero e già nel nome come diceva Pirandello dei nomi – portava l’imperativo categorico del suo destino. La morte dei nove piloti, quelli che entravano e quelli che uscivano, mi parve ancora più ingiusta e più orribile perché era arrivata nel luogo del massimo conforto, il «sicuro, secreto e fidel porto» dove non solo l’Ariosto innamorato, ma anche il marinaio «perdona al vento e al mare il torto». Tornato a Genova, anche l’allora presidente dell’autorità portuale, il bravo Lugi Merlo, mi chiese la stessa cosa: la rifarai tu?».
E ora eccola qui, protetta da quattro lati, costruita in un posto sicuro, con 20 milioni, su un’isoletta quadrata di cemento di 24 per 24, ancorata alla roccia in fondo al mare. È stata sottoposta a tutte le simulazioni ed è resistente ai terremoti e, con il suo cappello quadrato di 28 per 28 che sarà spalmato di luce, a qualsiasi tromba d’aria o disgrazia climatica. Dentro il cappello c’è nascosto il diavolo buono dell’ingegneria, quattro carrelli, ciascuno con trecento chili di ferro che i sensori spostano in senso contrario al vento, neutralizzando così le oscillazioni. «È fatta per essere ancora qui fra mille anni».
È questo il fil rouge dello stile Piano, i mille anni? «Non c’è uno stile Piano, penso che un architetto debba evitare di chiudersi in uno stile. C’è però la coerenza, un vocabolario fatto di citazioni e di allusioni, come diceva Borges, tra la memoria e l’oblio. Il vespro e la luce di Genova, che erano l’officina della poesia di Giorgio Caproni sono anche i materiali della mia architettura. Tra i poeti e i costruttori c’è una curiosità competitiva, una specie di simpatica gelosia reciproca. Chissà cosa direbbe Caproni a quest’altezza sulla sua Genova di ferro e di aria che è l’incipit di una poesia-capolavoro. Sono arrivato all’età grande, la mia citta è Parigi ma anche io con «Genova di tutta la vita. Mia litania infinita». Di Genova, dove fu cittadino onorario, Caproni diceva: «Me la sogno di notte, la sospiro di giorno. Per dirla alla francese, je suis malade de Gênes». Tanti vorrebbero morire mentre consumano un qualche piacere, un amore, un cibo, un luogo del desiderio, una montagna incantata, oppure scivolando nel sonno senza neppure accorgersene. Io vorrei morire in cantiere».
«Si dice che da noi non si spreca niente. Nella mia età grande, l’età della saggezza e della libertà, questo è il mio comandamento: non posso permettermi di sprecare nulla».