la Repubblica, 20 settembre 2024
Lo scrittore Cavina da Faenza alluvionata
Sono le tre di notte e me ne vado in giro per la Filanda Vecchia con una salopette o come si scrive di jeans che portavo all’Itis e un ombrello rosso che ha questa capacità di nebulizzarmi in faccia ogni singola goccia di pioggia. Ogni tanto prego che smetta, ma tanto so che troppe gliene ho combinate al mio Dio perché se ne stia lì ad ascoltare me.Ho una postazione da vedetta davanti all’uscio rialzato di casa. Ognuno c’ha la sua unità di misura per il terrore; la mia sono tre tombini davanti a dei garage. Li sbircio dalla finestrella basculante del bagno del piano di sotto. Il termometro della nostra sventura.L’acqua del Lamone esce giallastra, con il suo odore di panni asciugati male e cose morte.Non si muove neanche come un liquido, è una gelatina. Una specie di medusa. E pensare che non ci pensavo proprio a rialluvionarmi, almeno fino alle 5 del pomeriggio, nonostante l’avviso della chiusura delle scuole, che già di per sé non suona bene abbinato all’allerta meteo.Non vedo una chiamata di mia mamma e di Loson, da Casola. Mia mamma mi chiama solo per comunicarmi qualche funerale, gli anziani con cui sono cresciuto, cose così.Loson non mi chiama mai. Provo, non mi risponde nessuno.Guardo la pagina Facebook di mia mamma. C’è una serie di foto sfocate del rio dietro casa sua. «Rio straripato visto da casa mia» ha scritto.Le faccio una videochiamata e risponde. Mi dice che è un disastro, che non sa come fare a salvare i pulcini e che ha perso il galletto nuovo. Io preferisco non crederci che è un disastro. Ma ho già quel vuoto alla pancia che andrà malissimo. Così quando vado a prendere Olli e la riporto a casa, vado a vedere del Lamone dietro casa, oltre il passaggio a livello. Il Lamone scorre quieto e basso tra le due sponde, che mi sembrano immense. Non come un anno fa che era già raso al colmo. C’è anche un signore con un furgoncino, un idraulico, credo, guardiamo l’acqua compiaciuti, neanche diciamo di che cosa, perché è evidente che ce la facciamo sotto e cerchiamo ciascuno rassicurazione nell’altro. Quando torno a piedi a casa sono mizzo. Vado in bagno, faccio la doccia, non vorrei neanche guardarci, ma mi cade l’occhio. Ognuno c’ha la sua misura della propria solitudine. Una lingua gialla che striscia fuori dai tombini. Ci risiamo. E mi viene una roba che io non so se proverò mai più in vita mia, spero di no, una stanchezza delle sfighe del mondo, che le mie non sono neanche grandi, ma quelle da cui l’essere umano è tartassato. Una stanchezza e una paura che inizio a spostare tutto sulle scale, quello che si può, che uno dovrebbe prendere l’essenziale ma alla fine l’essenziale salta fuori che è qualcosa che non varrebbe un accidente per nessuno tranne che per te. E per questo non riesco a stare fermo di vedetta, giro, faccio la ronda alla Filanda Vecchia, vado a prendere una pizzetta e un estathè dai Servadei e prego che quella creatura giallastra non si allunghi oltre dai tombini sull’asfalto lucido e nelle nostre vite, e invece figurati se da retta, viene su, e se non tengono gli argini? Dove arriverà?Ci salviamo di una spanna. Gli argini tengono botta. I tombini non smettono di scolare acqua. Un messaggio di mia mamma. Ha salvato i pulcini, ci ha messo un tronco in cui appollaiarsi con l’acqua che gli passa sotto. Il galletto non si sa. Ma confida che salterà fuori quel furbetto, prima o poi.