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 2024  settembre 20 Venerdì calendario

Intervista a Julio Velasco, allenatore di pallavolo

Julio Velasco è a dieta. Dieta argentina: bistecca (e insalata).
Qual è il suo primo ricordo?
«Mia madre che cucina o corregge i compiti degli alunni».
E suo padre?
«Lo ricordo che dorme con i piedi di fuori, per il caldo. Io gli faccio il solletico, e lui si sveglia tutto agitato».
Come si chiamava papà?
«Raul Julio. Raul è il nome di mio fratello maggiore, io sono il secondo; poi è arrivato Luis. Papà era peruviano. Venne in Argentina a studiare all’università della Plata, dove a un ballo incontrò mia madre Edith».
Morì che lei era bambino, per una pancreatite mal curata.
«Mamma ci sedette sul letto e ci diede la notizia. Io rimasi incredulo. Mio padre non c’era quasi mai; non mi avevano mai detto che si erano separati. La sua mancanza è una delle cose che mi hanno forgiato il carattere. Alla festa del papà a scuola ci facevano preparare un regalino, io e mio fratello lo davamo a mia zia. Tante cose da uomini ho dovuto impararle da solo».
Ad esempio?
«A farmi la barba: mi tagliavo tutto. E poi il sesso».
Il sesso?
«Nostra madre ci scoprì un giornaletto con le donne nude. Allora ci fece trovare sul letto un piccolo libro sull’educazione sessuale; così, senza dirci una parola».
Sua mamma era insegnante di inglese.
«Inglese era il nonno, di cognome si chiamava Blake, eravamo evangelici metodisti, in casa prendevamo il tè con il latte. Ma la nonna materna, Luisa Schiaffino, era partita a dieci anni da Camogli, con due fratelli, Francesco e Adolfo, poi arruolati in marina, un terzo, Josè, che diventò medico, e una sorella, Anna».
Come diceva Borges? L’argentino è un italiano che parla spagnolo...
«Hanno attribuito a Borges una frase in realtà più popolare: l’argentino è un italiano che parla spagnolo, pensa in francese e vorrebbe essere inglese. Alla nascita dell’Argentina, i governi incoraggiarono l’immigrazione dall’Europa, pensando di attrarre la classe media; ovviamente arrivarono i poveri. La Plata è una città di fondazione. Costruita dagli italiani. Con una grande influenza della massoneria».
La massoneria?
«I liberatori dell’America Latina erano massoni: Bolivar, San Martín, Garibaldi».
Lei si sente argentino o italiano?
«Entrambi. Non è difficile: al mondo non esistono due popoli più simili. La differenza è che gli italiani hanno la saggezza ma anche il pessimismo dei vecchi. Gli argentini sono sognatori come gli adolescenti. Hanno l’ottimismo dei popoli giovani».
Cosa rappresenta il Che per lei?
«L’eroe della nostra generazione. Ma con il tempo ho maturato un distacco critico. Non dall’uomo, che rimane un esempio di altruismo; dalla politica che proponeva».
Anche lei voleva fare la rivoluzione.
«Militavo nel partito comunista rivoluzionario, nato da una scissione maoista del partito comunista argentino. Anche lì c’è una influenza italiana: il segretario generale del Pc per molti anni fu Vittorio Codovilla, che aveva fatto la guerra civile spagnola e conosceva la lingua. Dicono che fu Togliatti a proporlo a Mosca. Noi però eravamo antisovietici. Contro le invasioni di Budapest e Praga».
Ma eravate rivoluzionari.
«Sì, allora io pensavo che l’ingiustizia nel mondo si potesse risolvere con una rivoluzione sociale, politica e culturale. Era la fine degli anni 60 e l’inizio dei 70: un tempo di grandi lotte popolari. Nel ’72 ero presidente del Centro degli studenti di Filosofia e Lettere, poi per tre anni fui responsabile della nostra corrente studentesca».
In Argentina c’era una dittatura militare.
«Tra il ’73 e il ’76 ci fu una parentesi democratica, con fortissime tensioni politiche tra l’ala di destra del peronismo e l’ala diciamo di sinistra. C’è stata moltissima violenza».
Poi, il 24 marzo 1976, il golpe.
«Il peggiore della nostra storia, il più spietato, sanguinoso, retrogrado. I militari iniziarono ad arrestare persone, a torturarle, a farsi dare nomi di altre persone e a farle scomparire. Facevano partorire le ragazze incinte, ammazzavano la mamma e regalavano o vendevano i bimbi. Arrestavano illegalmente le persone delle liste che davano i torturati, le torturavano e si facevano dare altri nomi. Qualcuno indicò ex militanti che ormai avevano lasciato: mio fratello Luis fu preso così. Viveva con nostra madre, andarono a prenderlo a casa, alle tre del mattino».
Chi era suo fratello?
«Uno studente di medicina. Scomparve per un mese e mezzo. Fu terribile, ne uscì devastato. Quando tornò non era più lo stesso. E neppure la mamma era più lei. Luis si esiliò prima in Perù e dopo in Spagna. È morto giovane, per malattie che secondo me erano anche causate da qualcosa che si era rotto dentro di lui. Mio fratello fu testimone nei processi che si svolsero con il ritorno della democrazia nel 1983».
Lei ha perso amici nella repressione?
«Ho perso i miei due migliori amici. Con Rafael Tello eravamo insieme al liceo: anarchico, figlio di italiani, sparì con i due fratelli. Con Guillermo Micelli studiavamo insieme Filosofia: giocatore di rugby e pallavolo, lo uccisero davanti alla moglie incinta e al figlio di due anni. E poi Miguel Lombardi, mio compagno di squadra di volley, e tanti altri...».
Lei come si è salvato?
«Lasciai La Plata per Buenos Aires, dov’era più facile passare inosservati. Pochi sapevano che ero andato nella capitale e nessuno conosceva il mio indirizzo. I primi due anni sono stati molto duri, poi la pallavolo mi ha salvato: ho cominciato ad allenare bambini e a innamorarmi del mio lavoro. All’inizio per mantenermi ho fatto di tutto, anche le pulizie».
Dove?
«Lavavo i vetri di una banca, dalle sei del mattino alle 10. Mi infastidivano quelli che entravano appoggiando le mani sul vetro, anziché usare la maniglia. Lì ho imparato a rispettare il lavoro manuale e a guardare le cose dal punto di vista degli altri. Insegnavo di tutto: corsi di lettura veloce, di memoria, di metodo di studio, di geografia, di ortografia. Di notte studiavo quello che dovevo insegnare il giorno dopo».
Come ricorda i Mondiali del 1978?
«Avere un Mondiale in casa, assegnato prima del golpe, era un sogno per tutti noi che amavamo il calcio. Boicottarlo sarebbe stato un errore: lo sport appartiene al popolo, non ai politici, tanto meno ai dittatori; ad esempio non avrei vietato di fatto l’Olimpiade agli atleti russi. Da tifoso scesi anch’io per strada a festeggiare la vittoria ai Mondiali. Ma appena vidi le bandiere argentine al vento, ripensai che le ultime le avevo viste ai funerali degli amici ammazzati. Rientrai a casa».
Maradona o Messi?
«Maradona. Nel mondo era rispettato e ammirato; ma soltanto noi argentini e i napoletani gli volevamo davvero bene. Era un uomo pieno di difetti, e proprio per questo vicino alle persone normali. Non era facile essere Maradona».
Messi non ha mai letto un libro in vita sua e fatica pure a parlare, ma è un genio. Com’è possibile?
«L’intelligenza non è solo quella teorizzata da Platone e Cartesio. Il cervello funziona in modo specifico. Scannerizzare il campo come fa Messi, o restare in equilibrio sulla trave come Simone Biles o Alice D’Amato, è una forma di intelligenza».
Lei Velasco come visse la guerra delle Malvinas?
«Come il vano tentativo dei militari, ormai agli sgoccioli, di restare al potere».
Una volta lei mi ha detto che il regime peggiore è quello che funziona.
«Certo. Il regime argentino non funzionava; infatti è caduto. Quello cinese è ancora lì. Noi sudamericani guardiamo gli Stati Uniti con occhi diversi dagli europei. Hanno liberato l’Europa dal nazifascismo; ma in Sudamerica hanno appoggiato i golpe militari».
Lei ha allenato pure la nazionale dell’Iran, vincendo due campionati asiatici. Vedremo la caduta del regime degli ayatollah?
«Secondo me, sì. Sarà un processo lento, perché in Iran la politica è mescolata alla religione, e la religione dà sicurezza alla gente; ma tra la gente il consenso per il regime è sempre più basso».
Lei come si è trovato?
«L’Iran è un Paese con una cultura e una storia straordinaria. Ho fatto molte amicizie, e anche con la Federazione mi sono trovato molto bene. Non ho mai avuto a che fare con il governo. Quando la squadra fu invitata da Ahmadinejad, io non andai e la Federazione accettò che mi mantenessi al margine».
Il Papa è peronista come dicono?
«No, il Papa non è peronista. È uno che ha capito che, se non si avvicina ai poveri, la Chiesa cattolica, almeno in America Latina, perde sempre più fedeli. Siamo stati a trovarlo, gli ho regalato una foto di frati francescani che giocano a pallavolo, gli ho parlato in argentino...».
In spagnolo.
«In argentino, che è un po’ diverso dallo spagnolo. Si è sorpreso».
E Milei?
«Non riesco a credere che sia diventato presidente. La sua vittoria misura il disastro della politica argentina».
Quando divenne allenatore di pallavolo?
«Al Defensores de Banfield, nel comune della Grande Buenos Aires dov’è cresciuto Javier Zanetti. Poi allenai i bambini di 10-12 anni del club Gimnasia y Esgrima. Quindi sono andato al Ferro Carril Oeste, dove allenavo i bambini e i ragazzini di 13-14 anni. Quando l’allenatore della prima squadra andò via, la offrirono a me; ma io mi trovavo benissimo con i giovani, e non volevo accettare. Mi convinse un dirigente che rispettavo molto».
Al Ferro Carril lei vinse quattro campionati argentini consecutivi.
«Sì, ma non volevo lasciare i ragazzini. Non bisogna mai pensare che la felicità sia legata al fare una cosa importante, all’essere in un posto importante: la felicità è dove ti trovi bene».
Fece anche il vice della Nazionale argentina, che per la prima volta salì sul podio mondiale.
«Il c.t. era sudcoreano, però non allenava la squadra, il preparatore atletico ero io. Fu un periodo interessante. Una tournée di 64 giorni in Europa, in tutti i Paesi dell’Est: Bulgaria, Cecoslovacchia, Ddr, Jugoslavia... Poi un mese e mezzo in Oriente, a imparare una pallavolo veloce, meno fisica, improntata sulla difesa. Così, quando nel 1983 Jesi si trovò senza allenatore, i due argentini della squadra dissero: “Noi un allenatore lo conosciamo, è bravo e costa poco. Perché non chiamate Velasco? Secondo noi, viene”».
Venne. E nell’85 era già alla Panini di Modena, dove vinse quattro scudetti consecutivi. Qual è il suo segreto?
«Non c’è un segreto. Ci sono tanti fattori. Il primo è trovare giocatori con qualità magari ancora inespresse però di alto livello. Il secondo è trovare l’ambiente incline al cambiamento. Molti allenatori puntavano tutto sulla tecnica. Che è importante; ma è un mezzo, non un fine. Il fine è il gioco. E il gioco è una questione più complessa».
Qual è il suo vero segreto?
«Un allenatore, e in genere un leader, non fa nulla. Fa fare le cose agli altri. E deve convincerli. L’allenatore è prima di tutto un insegnante; per questo deve uccidere il giocatore che è stato. Se non lo fa, rischia di fallire; e più forte è stato, più il rischio è alto. Capello, Cruijff, Guardiola, Ancelotti ci sono riusciti; Maradona e Platini no».
Come si fa a convincere?
«Con l’empatia. Devi capire che l’altro è altro, è diverso da te, e motivarlo con la sua motivazione, non con la tua. Devi fare un po’ come Socrate, che con le domande faceva ragionare, guidava».
In nazionale trovò atleti fortissimi – Zorzi, Lucchetta, Bernardi, Gardini, Giani... – che però tutti insieme non avevano mai vinto nulla. Con lei vinsero due mondiali, tre europei, cinque World League. È vero che esordì dicendo: vedo occhi di mucca, voglio vedere occhi di tigre?
«No. Dissi che in due anni dovevamo diventare tra le prime quattro nazionali del mondo, e in quattro anni dovevamo giocare una finale. Mi sono sbagliato: in due anni siamo diventati campioni del mondo. Il punto è che avevo fiducia in loro. È come con i figli: i figli capiscono quando i genitori non hanno fiducia, quando non dicono la verità».
Si è discusso molto se gli atleti debbano essere «cattivi», aggressivi, agonisticamente feroci.
«Non so se cattivi; aggressivi sì. Il bello dello sport è che l’aggressività è delimitata dal tempo e dalle regole: nel volley non si insulta un avversario sotto rete, e alla fine gli si stringe la mano. Ma l’aggressività è importante e utile».
Perché?
«Perché toglie dubbi, elimina l’insicurezza. È giusto insegnare a competere in modo educativo, fin da bambini, perché la competizione fa parte della vita».
Lei ha vinto il primo oro olimpico del volley italiano...
«Non io: è stata una grande vittoria di squadra».
Avete vinto il primo oro con la logica del «qui e ora». Ce la spiega?
«Il giocatore deve decidere ogni volta, a ogni punto. Bobbio ci ha ricordato l’importanza del dubbio per gli intellettuali. Ma se un giocatore comincia a dubitare, o a pensare al punto precedente, o a quello successivo, è finita. Conta solo il punto che stai giocando».
Cosa diceva alle ragazze per motivarle? Che erano le più forti?
«Dicevo che dovevano essere autonome e autorevoli. Che eravamo forti, però dovevamo dimostrarlo ogni volta. Una partita non è una sfilata di pregi, è un confronto. Spesso prima delle partite uno si sente nervoso, gli sudano le mani, sente lo stomaco chiuso. Nel Luna Park la gente paga per andare sulle montagne russe, per sentirsi male. In realtà paga per sentire una emozione forte. Ecco, all’Olimpiade è lo stesso».
Cos’altro diceva?
«Che sarebbe stata durissima. Soprattutto i quarti di finale, che sono sempre la partita più difficile».
Nei quarti di finale avete battuto 3-0 la Serbia, che ha la giocatrice più forte del mondo insieme con la nostra Egonu, Tijana Boskovic.
«Ma io alle ragazze avevo detto di prepararsi a una partita molto complicata, che poteva finire 3-2, con un tie-break tiratissimo, tipo 34-32; però gli ultimi punti li avremmo fatti noi».
E alla Egonu cos’ha detto?
«Che il personaggio Paola Egonu era una cosa, la persona un’altra. Io so cosa vuol dire. A me interessava parlare a Paola. E dirle che su certe cose – il razzismo, lo pseudorazzismo, le insinuazioni – io l’avrei difesa sempre e comunque. Sulle altre cose l’avrei trattata come tutte le altre».
Paola Egonu era stata esclusa dalla nazionale.
«Ogni allenatore prende decisioni difficili. Io rispetto quelle degli altri».
Ma cos’è cambiato?
«I giocatori si accorgono subito dell’aria che tira. Con loro non bisogna mentire mai, perché la menzogna è una palla di neve che diventa una valanga. Mai dire a un atleta: ti farò giocare. Devi dirgli: ti farò giocare? Non lo so».
Però ha mentito quando diceva di non pensare mai alla finale di Atlanta, all’oro sfumato.
«Invece no. L’argento di Atlanta è stata l’unica medaglia nella storia olimpica italiana a non essere stata festeggiata. Mai avuta questa ossessione. Se lei davvero crede che abbia passato questi ventotto anni a pensare ad Atlanta e a sognare la rivincita, sbaglia».
Una sua atleta si è mai innamorata di lei?
«Che io sappia, no».
E lei si è mai innamorato di una sua atleta?
«No. Io con gli atleti metto una certa distanza. L’allenatore non deve essere amico dei suoi giocatori. Non devono fare come i genitori che vanno alle feste dei figli e si mettono a ballare pure loro».
Altre regole?
«Mai permettere a nessuno di parlare male di un compagno».
Lei parla male di Montali però.
«Assolutamente no. Lo considero un grande allenatore e abbiamo buoni rapporti. Quando qualcuno mi veniva a parlare di Montali, gli dicevo: hai trenta secondi».
Che differenza c’è tra allenare gli uomini e le donne?
«Le donne hanno il terrore di sbagliare; perché per millenni hanno pagato gli errori con le botte degli uomini. Quindi a volte vanno incoraggiate. Per il resto sono straordinarie, e imparano straordinariamente in fretta».
L’Italia è ancora maschilista?
«Il mondo è ancora maschilista, ma la rivoluzione silenziosa delle donne avanza. Ha notato che ai bagni degli aeroporti c’è sempre la coda in quelli delle donne e mai in quelli degli uomini? Sa perché?».
Perché?
«Perché li ha progettati un uomo. Che non sa o non tiene conto che le donne hanno bisogno di più spazio».
Chi è Vannacci? Un fascista, un razzista, un furbo?
«Non mi interessa definire le persone, tanto meno insultarle. Non è importante capire chi è Vannacci, ma perché tanta gente lo appoggia. La vera questione è la cittadinanza. Salvini dice che l’Italia è il Paese che ne concede di più: è vero, ma proprio perché vige il diritto del sangue, e basta avere un bisavolo italiano per diventare italiani; mentre non sono italiani ragazzi nati e cresciuti qui. Per fortuna Egonu, Silla ed altre sono diventate italiane prima di compiere 18 anni, quando lo sono diventati i loro genitori: altrimenti non avrebbero potuto giocare in Nazionale».
Lei è ancora un uomo di sinistra?
«Sì, ma non comunista. Seguo molto la politica, ma come allenatore della Nazionale non mi pare giusto parlarne. La Nazionale è di tutti».
Nel calcio com’è andata? Prima Lazio, poi Inter.
«È stata una bella esperienza, Cragnotti lasciava molto fare e io amo il calcio, ma ho capito che fare il dirigente non è il mio mestiere. Sono un uomo di campo».
A Flavio Vanetti del Corriere disse: non mi faccia parlare di doping che succede un casino.
«Confermo. Il doping è un problema serissimo. Come la corruzione. Non si può accusare nessuno senza prove; però il doping c’è. A volte il doping è sistemico, altre volte di squadra, ma molte volte è anche individuale. Qualche volta ci sono anche errori involontari».
Lei crede in Dio?
«Ci credevo».
Cosa c’è nell’aldilà?
«Credo niente. Penso che per molta gente sia una consolazione importante di fronte alla propria morte o quella di esseri che amiamo molto. Di noi resterà solo il ricordo, e neppure per tanto tempo».
Ha paura della morte?
«No. Spero sia veloce e inaspettata. Che mi colga mentre sto facendo una cosa nuova o risolvendo un problema. L’idea della pensione mi fa orrore. Invidio gli artisti, che in pensione non vanno mai».