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 2024  settembre 19 Giovedì calendario

Interviste a Richard Ford, scrittore

Giulio D’Antona, La Stampa:

Gli scrittori che possono aspirare di diritto al titolo di “grande romanziere americano” sono rimasti in pochi. Richard Ford è senza dubbio uno di loro. A ottant’anni vive la sua vita tra New Orleans e l’Irlanda, dove ha una casa immersa nel verde. Scrive senza obblighi morali, mangia sano e fa esercizio, e questa, forse, è una formula che si avvicina alla proverbiale ricetta della felicità, in aperto contrasto all’ultimo credo di un cinico come è stato Philip Roth: «Chiudere con la scrittura, chiudere con il lavoro, chiudere con la costrizione del foglio».
Per sempre (pubblicato in Italia da Feltrinelli per la traduzione di Cristiana Mennella), il suo nuovo romanzo, ultimo della saga di cinque libri – cominciata con Sportswriter nel 1986 e continuata con Il giorno dell’indipendenza, che nel 1995 gli è valso il Premio Pulitzer – che hanno come protagonista il suo quasi alter ego Frank Bascombe, si apre con la frase «Ultimamente penso di più alla felicità». Ma la prima parola che Ford dichiara di aver scritto è solo “felicità”. Non se lo aspettava, dice, ma è quello che aveva in mente da sempre e voleva che finisse così. In barba ai tempi difficili.Quando in Per sempre Bascombe si trova faccia a faccia con il monte Rushmore, a contemplare i volti dei padri d’America e a pensare al futuro del suo paese, a Donald Trump, ma anche alla morte imminente del suo secondo figlio, ai suoi divorzi, alla sua vecchiaia e a una vita passata a rincorrere sogni avverati a metà, non può fare a meno di tornare al suo primo pensiero e dirsi che, dopotutto, è meglio guardare al futuro ed essere felici. Frank, alla fine, è felice. E lei?
«Immensamente. Perché non dovrei esserlo? Ho ottant’anni, sono sposato all’amore della mia vita, sono in splendida forma. Non ci sono ragioni per le quali dovrei rattristarmi».Non la preoccupano le sorti del mondo?
«Certo. Ma la preoccupazione non è necessariamente infelicità. Se mi facessi sovrastare dalla preoccupazione al punto da rinunciare alla mia felicità, mi starei danneggiando. E mi metterei nelle condizioni di non poter contribuire a migliorarlo, il mondo».Pensa che sia possibile?
«È possibile fare tutto il possibile. Forse sono le uniche due ragioni per le quali siamo fortunati a essere in vita: cercare di essere felici e cercare di risollevare le sorti del mondo quando vediamo che sta andando in una direzione che contrasta la serenità».È molto bello…
«Per uno scrittore la felicità non è scontata, soprattutto se la si mette nei romanzi. Su di noi aleggia lo spettro della gravità, che impone che la buona letteratura sia sempre greve, profonda, assoluta. Da giovane ho scritto due romanzi oscuri, perché pensavo che si facesse così, e quando mia moglie li ha letti mi ha detto: “Ma questo non sei tu, perché non scrivi qualcosa di felice?”. Non ci avevo pensato, e mi sembrava un’assurdità, ma poi l’ho fatto e mi sono sentito soddisfatto. Ho capito che quella sarebbe stata la chiave della mia scrittura».È così che è nato Bascombe?
«In un certo senso. Frank è l’incarnazione della mia serenità e adesso è arrivato al suo ultimo giro. Il giro d’onore. Gli voglio bene, è un bravo tipo, uno che ha saputo trovare un risvolto positivo in qualsiasi sventura gli sia capitata ed è giusto che si goda la sua fine come meglio crede».Non le è venuta la tentazione di concludere con la sua morte?
«Sarebbe stato strano. Lui è la voce narrante e se avesse raccontato la propria morte sarebbe stato come sentire parlare un fantasma. Intendiamoci, avrei potuto, ma preferivo l’idea che arrivasse alla pace e venisse lasciato lì dov’è, anziano, di fronte alla prospettiva di un futuro sconosciuto ma potenzialmente di riposo. Se l’è meritato. E c’è un’altra cosa…».Quale?
«Quando avevo quarant’anni, pensavo che gli ottantenni fossero molto noiosi. Adesso che sono io ad avere ottant’anni posso dirlo: avevo ragione».Lei è un uomo molto sereno…
«Credo che la serenità mi aiuti a mettere le cose in prospettiva, mi aiuta a pensare meglio».Che ne dice di Trump?
«Temo che vincerà. Non vorrei, spero davvero di sbagliarmi, ma ho il sospetto che verrà rieletto».Perché?
«È forte, e ogni giorno si rafforza sempre di più. La maggior parte dei democratici e dei liberali con i quali mi trovo a parlarne preferisce non pensare alla prospettiva di un nuovo governo Trump, ma credo che questo atteggiamento sia proprio quello che alla fine farà sì che i suoi sostenitori, che invece fanno di tutto per sostenere le proprie posizioni, abbiano la meglio».Rovinerà il paese?
«Non con le sue mani. Trump non mi preoccupa di per sé: è solo l’esponente di una deriva culturale molto più vasta. È il prodotto del declino, non la causa. Gli americani sono diventati cinici, al punto di non credere più nella possibilità di un miglioramento generale, di essere continuamente sospettosi nei confronti degli altri. Hanno paura, e questa paura li priva del senso critico, di quella positività che sarebbe necessaria a invertire la rotta».Sono disincantati?
«Più che altro hanno perso qualsiasi speranza per il futuro. Non credono più in una possibilità di miglioramento e questo genera una specie di culto della cattiveria. Immagino sia una strategia innata, istinto di sopravvivenza, ma non fa che peggiorare la situazione».Lo vede da entrambe le parti politiche?
«Da parte dei repubblicani in particolare. La comunicazione politica non è più fattuale, si riduce a una serie di cattiverie, più o meno gratuite, ai danni della parte opposta, o dei presunti oppositori, o di chiunque in un dato momento rappresenti una minaccia potenziale, che poi non è nemmeno detto che sia una minaccia reale. Il fattore veramente preoccupante è che molti democratici stanno rispondendo con la stessa moneta: sono continuamente impegnati a cancellare persone che non reputano alla loro altezza, vivono su un piedistallo, si stanno comportando come gli altri e stanno perdendo di vista la realtà dei fatti».Qual è?
«Che a destra stanno facendo una rivoluzione. Che io non approvo, né ideologicamente, né nella pratica, ma che è di fatto una rivoluzione. Sono convinti, sono organizzati, si preparano a sovvertire quello che per loro è un potere ingiusto».Un nuovo slancio culturale potrebbe aiutare?
«No. I libri, l’arte, non hanno mai sovvertito il potere.
Pensi a tutti i libri di denuncia che sono stati scritti durante la guerra in Vietnam: hanno fermato la guerra? Per niente. L’unico modo per fare la propria parte è quello di comportarsi da cittadini coscienziosi e andare a votare. È quello che farò, e continuerò a esprimere le mie convinzioni attraverso la macchina democratica anche se Trump vincerà. Cosa potrei fare, altrimenti? Togliermi di mezzo? Andare a vivere in Irlanda?».Alcuni suoi concittadini lo farebbero…
«È un altro modo per esprimere il cinismo di cui le dicevo. Troppo facile. Nei giorni delle elezioni io e mia moglie faremo la nostra parte: ci metteremo a disposizione dei cittadini che non hanno un’auto per accompagnarli ai seggi, faremo volontariato ai banchetti di ristoro. Non c’è altro se non rimboccarsi le maniche».E se vincesse Kamala Harris?
«Sarebbe davvero un momento epocale, il coronamento di un sentimento che sta andando a scemare. Però penso che i liberali stiano dormendo».Sugli allori?
«Da quando lo scenario culturale ristagna, non hanno più nemmeno quelli».

*

Eleonora Barbieri, Il Giornale:

Richard Ford è nato 80 anni fa a Jackson, Mississippi, Stati Uniti del profondo Sud. È a Milano per parlare del suo nuovo romanzo, Per sempre (come di consueto Feltrinelli, pagg. 360, euro 22; lo presenterà oggi alle 19 alla Feltrinelli di Piazza Piemonte e domani a Pordenonelegge, ore 19): protagonista, per la quinta volta, è il suo Frank Bascombe, che nel 1996 gli ha fatto vincere il Pen e il Pulitzer (per Il giorno dell’indipendenza). Frank è anziano, ha perso un figlio, si è separato due volte e ora l’altro figlio Paul è malato di Sla: insieme intraprendono un ultimo, americanissimo viaggio on the road verso il Monte Rushmore. «Vede? Ora bevo questo caffè e potrei morire d’infarto. So di che cosa parlo, perché mio padre è morto fra le mie braccia per un infarto. Ma a me va bene».

È felice?
«Sì. Sono felice. Perciò alla morte dico: prendimi pure, anche adesso».

Sportswriter e Per sempre, il primo e l’ultimo romanzo su Frank Bascombe, parlano di felicità. È un suo tema fondamentale?
«Sì. Quando ho iniziato a scrivere Sportswriter ero perplesso e mia moglie mi disse: Perché non scrivi di qualcuno che sia felice, anziché di qualcuno infelice?. Io prima avevo scritto di esistenze terribili, di violenza. Ma come dovevo fare? Sa, Tolstoj dice che tutte le famiglie felici sono uguali... Non è vero».

E quindi come ha fatto?
«Bisogna cercare di mettere la persona in una situazione molto triste - la perdita di un figlio, di un matrimonio, di una vocazione - e vedere se riesce a superarla e a rimanere felice. È quello di cui scrivo sempre».

È un tema molto americano?
«Noi americani fingiamo di essere interessati alla felicità, ma non è veramente così: amiamo il conflitto e il dramma; perciò devo sempre trovare il dramma nella felicità».

Frank ha la sua età?
«È un pochino più giovane, di un annetto. Così ho potuto raccontare tutto l’arco della sua esistenza, attraversando periodi della sua vita che conosco, anche se magari non ne ho fatto esperienza allo stesso modo. Per me molto comodo».

Perché?
«Ho meno lavoro da fare... Ora ho in mente di scrivere un romanzetto comico, una storia in un campus. Ne parlavo due settimane fa con il mio amico John Banville e lui mi ha fatto notare che non ci sono più campus, nei college: Devi ambientarla da qualche parte nel passato mi ha detto. E io: Accidenti. Come faccio? È il tipico dilemma da romanziere».

Come lo risolve?
«Devi trovare una soluzione al dilemma che di fatto ignori il dilemma. Questo è il modo in cui cerco di risolvere tutti i problemi: ignorandoli».

Come Frank?
«Sì. Alla Law School ho imparato che non devi lasciare che la situazione prenda il comando su di te, bensì prendere tu il comando della situazione. Quindi, se mi si presenta un insieme di fatti che possono essere problematici, il mio approccio è: e se fosse vero l’opposto? E se questo problema non fosse un problema da risolvere, bensì un’opportunità?».

Come si fa?
«Basta dargli un altro nome. L’ho imparato dalla terapia della Gestalt, che ho studiato negli anni ’60, perché pensavo di avere dei problemi di personalità. Fritz Perls non chiedeva ai suoi pazienti che cosa ti impedisce ti fare questa nervosi? ma che cosa ti consente di fare?».

Siamo tutti un po’ Frank Bascombe?
«Lo spero. Spero che tutti possano ritrovare qualcosa di sé nel libro. Ritengo di essere il più ordinario degli uomini e questo mi permette di creare una comunità con i miei lettori: loro sono come me e io come loro».

Leggendo di Frank, la sensazione, familiare, è che si concentri sulle piccole cose e si perda quelle grosse.
«Forse è così. Del resto, se io dovessi scegliere su che cosa concentrarmi, mi concentrerei sulle cose piccole, perché è lì che si trova la gran parte delle sensazioni, dove si compiono gli errori e dove si possono comprendere le cose più facilmente. E credo anche che, se prestiamo attenzione alle piccole cose, questo ci aiuti a relazionarci con quelle più grandi, e a non perdercele. È esattamente come sono io: consumato dai dettagli. Ma credo che questi dettagli ci mettano in contatto con le grandi questioni della vita».

È così che lavora, anche?
«Precisamente».

Frank è un brav’uomo.
«Sì. Anche se non tutti sono d’accordo».

Una specie in via d’estinzione?
«Spero di no. Ma capisco perché lo chieda. In termini contemporanei, lui sarebbe facilmente cancellabile. Non per me... Frank non dice sempre la cosa giusta, non pensa sempre la cosa giusta, ma dice ciò che pensa e io registro le sue esperienze; quindi, forse, condivido le sue colpe. E anch’io, di tanto in tanto, sento le forze della cancellazione incombere su di me. Il poeta Randall Jarrell diceva: devi essere sicuro di insultare le persone giuste. Cerco di fare del mio meglio, in questo».

Ha una routine?
«Quando lavoro, sì. Altrimenti no, però mi porto sempre un taccuino. Per esempio, per questo piccolo romanzo comico che vorrei scrivere non avevo un titolo, e questo mi preoccupava; ma questa mattina, guardando il Duomo, bellissimo, con le sue 135 guglie, me ne è venuto in mente uno: ecco, mentalmente mi aiuta. Non c’entra nulla con la vostra cattedrale, comunque».

E quando lavora?
«Scrivo dalle 8 e mezza alle 13, faccio una pausa di due o tre ore e riprendo fino alle 18 circa. Poi riorganizzo i pensieri per il giorno successivo: amo tornare alla scrivania con qualcosa già in mente. L’ho imparato da Hemingway, che diceva: lasciati sempre nel mezzo di qualcosa, non fermarti mai alla fine di un paragrafo, o di un capitolo; così, quando torni, puoi riprendere».

È facile?
«No. Da giovane soffrivo di disturbo ossessivo compulsivo e mi fissavo a scrivere sempre due paragrafi in più, pur sapendo di dovere smettere. E poi, il giorno successivo, avrei voluto cambiare tutto. Ero anche dislessico e intorno ai 9 anni ho sofferto della sindrome di Tourette: quindi è molto facile, per me, scrivere di Frank, perché conosco tutte le sue fragilità».

E oggi?
«Alle superiori le ragazze mi chiamavano Rich-odd, cioè strano. Era l’ultima cosa che volessi: io volevo essere regolare, invisibile. Normale. Per molto tempo è stato un miraggio. Perciò, ecco il più grande successo della mia vita: oggi sono ufficialmente normale. Molti coltivano l’eccentricità, io coltivo la normalità».

Anche in letteratura?
«Non sono interessato a ciò che separa le persone, quei personaggi alla Boo Radley, ha presente? È un uomo un po’ disturbato, nel Buio oltre la siepe: nei romanzi del Sud c’è sempre uno così. Io non lo sopporto. Per quello non ho mai letto Harper Lee: da giovane volevo leggere dei romanzi sull’America, non sul Sud».

Il Sud non è America?
«Il Sud è il Sud.
In Assalonne, Assalonne!, Faulkner dice: Io non lo odio. Io non odio il Sud, ma faccio altro. Ho letto altro».

Che cosa?
«Saul Bellow, Philip Roth, John Cheever, Joan Didion, John Updike».

La morte è un tema centrale del romanzo.
«Le persone, soprattutto in America, tendono a distogliere lo sguardo dalla morte. Io invece mi dico: non farlo, non ignorarla, non averne paura. Pensa alla morte. Da piccolo, i miei parenti erano anziani, quindi era normale che morissero: dovevi prenderla in modo divertente, cercare di adattarti alla sua presenza. Ed è quello che faccio fare anche a Frank».

E dopo?
«Zero. La storia è finita. Se avrò una lapide, ho chiesto a mia moglie Kristina di incidervi la frase Nothing is enough, niente è abbastanza... che può essere interpretata in due modi. Ma ho una paura tremenda che non lo farà».