Corriere della Sera, 19 settembre 2024
Intervista a Clemente Mastella, politico
Mastella e l’attitudine alla mediazione. «Usata non solo per le trattative di governo o tra le correnti della Dc. Grazie a questa dote ho inventato la figura del superospite del Festival di Sanremo».
Che cosa c’entra lei con Sanremo?
«Amico di Arbore, di Boncompagni, di Claudio Baglioni, insomma nella Dc ero il più eclettico, l’unico che faceva avvicinare gli artisti agli appuntamenti del nostro partito. Un giorno Claudio Villa si presentò furibondo da Ciriaco De Mita per lamentarsi di Pippo Baudo, che l’aveva escluso dalla lista dei cantanti in gara. Pippo voleva ringiovanire il parterre, Claudio non se ne faceva una ragione. De Mita, che non sapeva che pesci prendere, chiamò me: “Gestiscitela tu ché io di queste cose non ci capisco nulla”. E io chiamai Baudo, amareggiato anche perché di Villa era stato testimone di nozze. “Pippo”, gli dissi, “bisogna trovare una soluzione che accontenti tutti”».
La soluzione?
«Villa sarebbe andato a Sanremo come superospite fuori gara, oltre a due ospitate a Domenica In, condotta da Baudo. Pippo avrebbe salvato l’architrave della competizione sanremese che aveva in mente, senza Villa tra i piedi».
Sua moglie Sandra e lei, un’epopea politico-sentimentale stile Kennedy del Sannio. Il vostro segreto?
«L’anno prossimo saranno cinquant’anni dalle nozze. Lì però devo ringraziare innanzitutto la mia laurea in filosofia».
Cioè?
«Quando mi laureai in filosofia con una tesi su Gramsci, visto che ero il primo di tutti i rami della famiglia a laurearsi, la zia Leonilde, emigrata a Boston, mi regalò il biglietto aereo per andare a trovarla. Sandra, bellissima già da ragazzina, che vedevo le volte che tornava in vacanza a Ceppaloni, si era già trasferita con la sua famiglia a New York. A un certo punto di ’sta Boston, di cui un po’ m’ero stufato, mi venne l’idea. E lo chiesi a zia Leonilde, che conosceva bene la famiglia Lonardo: “Senti, ma se andassi a New York? Glielo chiedi tu se mi ospitano?”. Mi ospitarono, primi corteggiamenti; poi Sandra venne in vacanza in Italia, primo filarino; poi ancora il fidanzamento, tra mille difficoltà logistiche, perché una volta dovevi chiedere la mano alla famiglia e io ’sta benedetta famiglia non la vedevo mai perché erano sempre in America e soldi per andarci apposta non ne avevo... Più altre complicazioni perché m’ero messo a insegnare alle magistrali, sa, avvenente ero avvenente, qualche studentessa innamorata c’era, Sandra era imbufalita ma vabbé, cose così, poi è andato tutto bene».
Mai una crisi?
«Il trucco di un matrimonio così è contenere sé stessi fino a farsi violenza».
Ci faccia un esempio.
«Una sera che stavo da solo a casa nostra a Roma, squillò il telefono a Ceppaloni. Rispose Sandra e una voce anonima le disse: “Guarda che tuo marito è con un’altra donna”. Senza neanche pensarci, lei prese il fratello, salirono in macchina e corsero a Roma. Arrivati al pianerottolo di casa, al di là della porta sentirono effettivamente una voce femminile. Sandra ci pensò un secondo e poi impose al fratello di tornare indietro senza palesarsi. Se fosse entrata e mi avesse trovato con un’altra, il matrimonio sarebbe finito lì; ma sarebbe entrato in crisi anche se avesse fatto un blitz e mi avesse trovato che dormivo, ci sarei rimasto malissimo per la mancanza di fiducia».
Era davvero con un’altra donna?
«Macché, era la televisione. Dormo sempre con la televisione accesa».
C’è un prima e un dopo tutto questo nella vicenda umana e politica di Clemente Mastella, oggi sindaco di Benevento, che nella vita, tra le altre cose, ha fatto il ministro del Lavoro con Berlusconi e della Giustizia con Prodi, nove volte il parlamentare italiano e due europeo, l’inventore di partiti, il portavoce di De Mita, il vicepresidente del Napoli calcio all’epoca del primo scudetto di Maradona, il giornalista Rai, l’insegnante alle magistrali.
Dove comincia la sua storia?
«Mamma contadina, papà insegnante. A San Giovanni, frazione di Ceppaloni, unico posto telefonico pubblico dal panettiere. Quando chiamavano da Roma, il panettiere correva dal forno a casa mia e urlava: “Clemente, ti cerca De Mita!”. A Benevento, a scuola, mi facevo chiamare Mario».
Mario?
«Mi chiamo Mario Clemente, Clemente per il nonno paterno. Nella prima campagna elettorale per la Camera, nel 1976, a un comizio in provincia di Avellino mi ritrovai un mio compagno di classe, sorpreso di vedere me sul palco. Disse che era venuto perché credeva che quel Clemente Mastella fosse un mio parente e voleva conoscerlo».
De Mita come lo intercettò?
«Con alcuni amici avevamo un’associazione culturale cattolica ma fuori dai partiti. Lo invitammo a Benevento, lui venne e rimase colpito. E così entrai nella sinistra Dc».
Fu De Mita a raccomandarla, anni dopo, per entrare in Rai.
«Concorsi non ne bandivano, l’unico modo era... Vabbe’, comunque sia, la verità è che fu grazie a una clamorosa figura di m... che la mia carriera decollò. Congresso nazionale della Dc del 1973, quello degli accordi di Palazzo Giustiniani tra Fanfani e Moro. Fanfani stava parlando dal palco, il Palazzo dei Congressi di Roma gremito, io in prima fila. A un certo punto si sentì un frastuono indicibile e tutti presero a guardare verso di me. La sedia aveva ceduto, io ero finito per terra. Fanfani si fece dire chi fossi; gli riferirono che ero tale Mastella, vicesegretario della Campania, della sinistra Dc».
E poi?
«La sinistra democristiana era contraria all’accordo Fanfani-Moro e il congresso andava avanti nell’attesa che la situazione evolvesse, in un modo o nell’altro. Qualche ora dopo, mentre stavamo in un corridoio a discutere tra di noi, spuntò Fanfani, anticipato da Gian Paolo Crespi e da Villy de Luca, già potentissimo in Rai. Visto che Marcora, De Mita, Galloni e gli altri della corrente avevano i musi lunghi, Fanfani, che fino a poche ore prima manco sapeva chi fossi, si rivolse a me: “Allora, come avete deciso?”. E io, d’istinto: “Nel migliore dei modi!”. Villy De Luca, che vide la scena, si convinse che ero una sorta di potente ambasciatore segreto tra De Mita e Fanfani e due settimane dopo mi chiamò dalla Rai».
Il lungo sodalizio con De Mita cominciò poco dopo.
«Mi considerava il più capace tra i giovani. E, intellettualmente, il più moderno. Un giorno, mentre lavoravamo a un suo discorso, gli sottoposi una bozza in cui c’era una citazione della canzone “I vecchi” di Baglioni. Lui lesse, arrivò a quel punto, e fece: “E ’sta cosa che è?”. “Baglioni”, dissi io. E lui: “Leviamola”. Quando arrivò il giorno del discorso, Ciriaco prese i fogli definitivi e mi fece: “Ma quella cosa della canzone non c’è più?”. E io: “Mi avevi detto di toglierla!”. “Facciamo così”, concluse, “tu rimettila, poi se mi viene da dirla la dico”. Citò Baglioni, uscirono di quel giorno quasi solo articoli col titolo “De Mita cita Baglioni”».
Perché Pertini la odiava?
«Perché fui uno dei due democristiani, insieme a Guglielmo Zucconi, che non lo votarono per il Quirinale. Qualche mese prima della sua elezione al Colle, mentre Moro era prigioniero e mandava le lettere, lo sentii dire in un corridoio della Camera che quelli di sinistra come lui non avrebbero parlato con le Br, neanche sotto tortura; mentre al contrario un cattolico come Moro aveva ceduto subito... Promisi a me stesso che appena possibile gliel’avrei fatta pagare».
Visti da Mastella: Francesco Cossiga.
«Quando fondammo l’Udr per dar poi vita al governo D’Alema mi chiamò perché c’era una rogna urgente. Corsi a casa sua e feci anticamera per un tempo infinito. Quando poi mi decisi a entrare, stava giocando a uno dei primissimi esemplari di Playstation».
Rendeste possibile l’arrivo del primo comunista a Palazzo Chigi. D’Alema, appunto.
«Quel governo nasceva per ragioni più grandi di noi, e cioè l’intervento della Nato in Kosovo. Individuato il presidente del Consiglio, c’era però da fare la squadra. Cossiga mi disse: “Per quanto mi riguarda chiedi la Difesa per Carlo Scognamiglio e un posto da sottosegretario per il cardiochirurgo Martelli, che è arrivato da Alleanza nazionale. Il resto fallo tu ma muoviti così: chiuditi nel mio ufficio, dormi là dentro, stacca il telefono fino alle 5 e prima non parlare con nessuno, neanche se ti chiama il Quirinale”. Chiamò chiunque, non risposi a nessuno. Alle 5 e 01 riattivai le linee e squillò il telefono. Era D’Alema: “Allora, Mastella, che cosa chiedete?”. “Innanzitutto la Difesa”, risposi io. “Impossibile”, replicò lui».
E lei?
«Gli dissi di andare a fare in c... lui e il suo governo, che non sarebbe mai nato. Quindi gli attaccai il telefono in faccia. Poco dopo richiamò, mi chiese se mi fossi calmato e soprattutto ci diede il ministero della Difesa».
Quando nel 2008 fece cadere il governo Prodi, lei aveva un accordo con Berlusconi?
«Nulla di più falso. Prodi aveva vinto le elezioni anche grazie ai miei duecentomila voti in Campania, che si erano rivelati decisivi. E il giorno che arrestarono mia moglie, con la previsione di elicotteri sopra il Consiglio regionale della Campania manco fossimo dei narcos, il resto della maggioranza mi lasciò solo. Quando mi dimisi parlando alla Camera accanto a me, e lo ringrazio ancora oggi, c’era solo Vannino Chiti. Gli altri spariti, compresi quelli che grazie al sottoscritto facevano o avevano fatto il presidente del Consiglio o il ministro... Isolato come un appestato e dovevo rimanere là dentro? E poi mancarono anche altri voti alla maggioranza del Senato, non solo i miei. Comunque sia, non avevo un accordo con Berlusconi. E c’è anche la prova: alle elezioni successive né io né altri dei miei venimmo candidati dal Pdl. Oh, comunque Silvio con me sempre un galantuomo, eh? Non ne parlerò mai male».
L’interlocuzione che non ha mai rivelato?
«Durante una visita al carcere minorile di Casal del Marmo mi si avvicinò Papa Ratzinger chiedendomi che cosa pensassi dell’organizzazione del primo Family day, se andasse o meno sostenuta, se bisognasse incoraggiarla. Gli dissi che l’iniziativa andava fatta ma allargando il fronte ai laici. Accanto a lui c’era il Cardinal Ruini. Capii che gli aveva suggerito la stessa cosa».