Corriere della Sera, 19 settembre 2024
Intervista a Brunori, cantante
L’energia di certe canzoni sembra racchiusa in un unico verso. Se questa mia teoria empirica ha un fondamento di realtà, allora il verso «energetico» di «La ghigliottina» è questo: «Ti vedo un po’ stanco, maschio etero bianco». Non solo per ciò che Dario Brunori dice ma per come lo dice, anzi per come lo canta, facendo scivolare la voce verso il basso, due volte, come se davvero fosse sfinito. All’inizio della nostra conversazione glielo rispedisco indietro, quel verso sardonico: «Dario, ti vedo un po’ stanco...».
Sorride completando la frase nella sua testa, ma stanco lo è davvero. Riccardo Sinigallia, con cui lavora da mesi alla composizione e adesso alla registrazione del disco, è «un animale notturno», mi spiega, al contrario di lui, che ormai ha ritmi borghesi, più diurni e regolari, soprattutto da quando è padre.
Come sta andando? Non la paternità, il disco.
«Discese ardite e risalite. Sinigallia non mi concede il tempo di rilassarmi».
Ovvero?
«Quando vede che ricorro a vecchie ricette, che cerco di vincere facile, mi blocca. Mi bacchetta come un maestro zen. E io mi affido».
È la prima volta che decidi di affidarti così a un produttore.
«Ho pubblicato cinque dischi. Quando ho iniziato a immaginare il sesto mi sono accorto che mancava lo stimolo necessario. Sentivo che la mia cifra era stabilita, che avrei ripetuto cose già fatte. Non provavo piacere nemmeno nel mettermi al computer ad arrangiare. Avevo il desiderio autentico di dedicarmi a tutt’altro».
E Sinigallia ha scardinato l’abulia.
«Rimettendomi in contatto con il motivo originario per cui faccio quel che faccio. Con la possibilità di un racconto vero».
Vero?
«Autentico, credibile, sia nei testi che nel tono. Portando dentro le canzoni anche esperienze non strettamente autobiografiche».
Con la tua crisi – se posso chiamarla così – non c’entrava anche l’accorgersi che la musica leggera è diventata sempre più leggera?
«Quando ho suonato all’arena di Verona per Una nessuna centomila, insieme alle vere popstar, mi sono percepito un po’ strano. Sembravo “aggiustato” apposta per il contesto. Però non ho preclusioni. Mi piace l’idea che le mie canzoni possano essere cantate ad Amici».
Un po’ ti piacerà anche apparire come quello saggio.
«Detesto l’effetto “ecco, arriva il cantautore”. Ma è vero che aiuta, a volte, a essere considerato con un’attenzione particolare. Certe dinamiche sono cambiate di sicuro, non credo che De Gregori e Dalla avessero così tanti problemi nell’interazione con il mainstream. Il cantautore in Italia ha avuto la stessa parabola della sinistra».
Andresti a Sanremo?
«Sì, ma...».
Ma?
«Mi terrorizza l’eurovision».
Di quello possiamo occuparci in seguito. Per il momento: come giustifico un’intervista sull’uscita di un singolo, nemmeno del disco intero, che arriverà l’anno prossimo?
«Puoi dire che ne sei rimasto folgorato».
Va bene. Ne sono rimasto folgorato. La ghigliottina.
«Nasce dalla fusione di due canzoni. Sinigallia le ha ascoltate e ha pensato che in realtà erano una sola».
Avresti potuto intitolarla «Maschio etero bianco».
«Rischiava di fagocitare tutto. E poi non è davvero una canzone sul maschio etero bianco. È la canzone di un maschio etero bianco. Della crisi che attraversa quel modello di uomo».
«La droga, la moda, il calcio, la figa... Po po po po po po...».
«Ci racconta».
Parla per te. E poi nemmeno tu hai troppo l’aria di quel maschile.
«La caccia, il calcio, il menarsi... Io non mi sono mai picchiato con nessuno, sebbene crescendo in un paese della Calabria non fosse facile evitarlo. Mio zio era un patito di armi, voleva insegnarmi a sparare, ma io avevo modelli maschili diversi, Troisi per esempio. Sono contento che l’epoca stia spostando l’asse verso la mia sensibilità».
La ridefinizione dei generi avviene anche in contesti meno urbani, come la campagna calabrese dove vivi?
«È chiaro che il piccolo paese è più indietro, ma la tensione c’è».
La canzone trasmette un’insofferenza verso certi cliché, tra cui quello dei cittadini che vagheggiano la vita bucolica ma poi in campagna non ci stanno sul serio.
«Anche in quel caso parlo di me. Quando ho avviato l’attività vinicola mi sono accorto subito che c’era da farsi un gran culo. Per fortuna ci sono i soci che se ne occupano davvero».
Vivi in campagna, hai una famiglia ben composta. Trovi ancora nutrimento artistico in tutta questa sicurezza?
«Devo elaborare strategie sempre più contorte. Perché la vita ordinaria è di conforto, anche troppo. Il tempo lungo passato dall’ultimo disco, cinque anni, un po’ lo conferma. Alla fine, dopo tutte le fughe, ho riproposto il modello di mio padre: la Calabria, la famiglia, l’azienda. Faccio di tutto perché la mia vita assomigli alla sua. Questo sì, è da maschio etero bianco».