Corriere della Sera, 19 settembre 2024
Biografia di Totò Schillaci
L’ultima immagine che conservo di Totò Schillaci non ha nulla a che fare con il calcio. È il momento in cui fu eliminato dall’ultima stagione di «Pechino express». Aveva gareggiato insieme a sua moglie, una donna forte e intelligente. Lui aveva mostrato doti di simpatia, autoironia, gentilezza che lo avevano reso simpatico agli altri concorrenti e al pubblico.
Nella dura vita dei campioni che il calcio consegna al margine degli anni di gloria, Schillaci ha fatto molte cose, che nulla avevano a che spartire con il mondo che lo aveva reso popolare. Ha partecipato all’isola dei famosi, è stato consigliere comunale di Forza Italia, ha inciso un disco, ha interpretato un boss in una puntata di «Squadra antimafia».
Se riavvolgiamo ancora il nastro e vogliamo trovarlo con gli scarpini ai piedi, dobbiamo volare all’indietro e lontano. Trent’anni e il Sol Levante. Totò fu acquistato dal Jubilo Iwata e lì, dopo aver insultato un arbitro e essersi provocato un grave infortunio, finì la sua carriera, alle soglie del nuovo millennio. Ai giapponesi fece vedere 56 gol in 78 partite, mica bruscolini.
Era un gran giocatore, Totò. Altroché se lo era.
Discontinuo, bizzoso, irascibile, facile a deprimersi, quello che si vuole. Ma aveva talento da vendere e una rapidità istintiva, un fiuto del gol, un senso della posizione giusta da assumere per trovare subito la porta, che destavano invidia e meraviglia.
Nasce sui campetti di Palermo, dove gioca rubando tempo ai lavori che fa per aiutare la famiglia: gommista, garzorie
ne di pasticceria e venditore ambulante. Totò non è cresciuto, da calciatore, nel conforto di campi d’erba ben innaffiata e di spogliatoi con l’acqua calda. La sua iniziazione al football è segnata dalla sua condizione sociale, come è stato per molti campioni di quel tempo sportivo.
Schillaci milita poi nella squadra dell’azienda dei trasporti comunale. Ma è talmente forte, che finisce in serie C e poi in B con il Messina, al quale regalerà 77 reti in 256 partite. Lo acquista nel 1989 la Juventus che investe, come sapeva fare, su due punte di seB, Casiraghi e Schillaci, due future colonne bianconere e azzurre. Con la Juve vince la Coppa Uefa, ma non avrà mai la soddisfazione di uno scudetto. La Vecchia Signora sta infatti cambiando pelle, in quel periodo e, alla stagione bonipertiana, succede una fase di transizione nella quale in campionato i risultati non arrivano.
Lo scudetto verrà vinto proprio nella stagione in cui Totò è stato ceduto. Ma Schillaci lascia a Torino, in soli tre anni, 36 reti in 132 partite. In quella squadra in costruzione, Totò vive i suoi anni più belli. Gioca con Baggio, al quale rifilerà nello spogliatoio un pugno per uno scherzo non compreso. Nell’anno che lo porterà ai mondiali del 1990, ci sono Rui Barros, Marocchi, Tacconi, Zavarov.
La squadra arriverà quarta, ma Totò segnerà 15 gol in 30 partite, uno ogni due. Sono gol di tutti i tipi: di rapina, di finezza, di potenza, di testa. Segna perché la palla sembra solo che aspetti di essere posta nel sacco da lui: come la tocca, comunque la tocchi, fa gol.
È così che Azeglio Vicini,
commissario tecnico cresciuto con Bearzot e a lui succeduto, lo convoca in maglia azzurra. Una sola partita amichevole a marzo e poi lo inserisce nella lista dei ventidue convocati per il Mondiale in Italia, quel Mondiale che avremmo dovuto e voluto vincere, se non ci fosse stato Maradona e quel gol di Caniggia, l’unico subito in tutta la fase eliminatoria della competizione, che ci tolse il sogno.
Schillaci era alla prima stagione in serie A e solo un conoscitore di calcio come Vicini, persona di levatura, poteva decidere di rischiare un ragazzo
senza tanta esperienza a certi livelli.
Il resto, lo ricordano tutti. Entra al 75’ della prima partita con l’austria, nella quale non riuscivamo a segnare. Quattro minuti dopo si libra in volo, lui che era in debito di centimetri con il Dio Eupalla, e ci assicura la prima vittoria. Poi, a parte la gara con gli Stati Uniti, segna sempre, segna comunque.
In tutta la sua carriera è andato in gol sette volte, con la maglia azzurra. Bene, sei sono in quel Mondiale. Sei, come i gol di un altro centravanti, anche lui mingherlino e di origi
ni umili, che otto anni prima aveva fatto innamorare il mondo e fatto disperare i brasiliani, Paolo Rossi.
Nelle «notti magiche» gli italiani rivedono la storia di Pablito. Come lui Totò segnava in tutti i modi, anche i più rocamboleschi. Il pallone, in quei giorni del 1990, si era innamorato di lui, della sua storia di riscatto sociale, del suo talento veloce. Una famosa fotografia ritrae i suoi occhi aperti, sbarrati, in una espressione che nessuno può dimenticare. Così vogliamo ricordarlo, ora che una ostinata malattia ce lo ha portato via, con affetto e gratitudine.