La Lettura, 15 settembre 2024
Sulla mostra «Street Art Revolution. Da Warhol a Banksy: la (vera) storia dell’Arte urbana»
Tutto sembra nascere da una teoria intrigante: l’Italia è da sempre il Paese dell’arte nelle strade e nelle piazze, il Paese delle chiese, dei tabernacoli, dei palazzi pubblici e privati arricchiti da affreschi, sculture, fregi, bassorilievi, colonne, capitelli e da ogni altro possibile elemento decorativo. E dunque, almeno questa è l’idea dei curatori della mostra che si inaugura il 28 settembre al Palazzo Tarasconi di Parma (Street Art Revolution, fino al 2 marzo), quale Paese più vicino a un movimento che ha fatto dello spazio urbano il «luogo perfetto» (un po’ laboratorio, un po’ museo) dell’Italia delle facciate dipinte da Mantegna, Giorgione, Tiziano, Pordenone, Vasari, Polidoro da Caravaggio, Tintoretto, Taddeo Zuccari? Proprio nei giorni in cui, per uno strano gioco del destino (o meglio per la mostra-evento Correggio500), sempre a Parma in qualche modo «scende in strada» (o meglio viene calato dall’alto in una sala del Monastero di San Giovanni) anche il ciclo di affreschi realizzato tra il 1520 e il 1524 da Antonio Allegri detto il Correggio per la grande cupola della Basilica dello stesso monastero.
Curata da Giuseppe Pizzuto con la direzione artistica di Luca Bravo, Street Art Revolution si propone (con le sue sessantacinque opere) come la più grande rassegna mai dedicata in Italia a questo movimento, «forse uno dei più longevi, se non addirittura l’ultimo esistente». Una mostra «che cerca di raccontare un frammento di una storia, tra le mille possibili, di un movimento che ha democratizzato l’accesso alla creatività portando sui muri delle città opere visibili a tutti che affrontano temi urgenti come la giustizia sociale, l’oppressione politica, le disuguaglianze economiche, le questioni di genere». In cerca di una «definitiva storicizzazione» (come la definiscono i curatori) che oltrepassi — o quantomeno «non ignori» — concetti come vandalismo, legalità, pubblicità, riqualificazione, arte, muralismo, marketing, comunicazione, urbanismo, degrado da sempre associati alla Street Art, concetti che l’hanno resa popolare forse più per le idee che voleva trasmettere che non per l’effettivo valore artistico.
Jef Aérosol, D*Face, Invader, Alexandre Farto aka Vhils, The London Police, Mr. Brainwash, PichiAvo, Pure Evil e poi la «scuola italiana» di Sten Lex (con la tecnica dello stencil poster), Microbo & Bo130, Hogre, Orticanoodles, Biancoshock: a questi autori («che — precisa Luca Bravo — hanno superato i confini tra arte, simbolismo e viralità») è affidato il racconto di una creatività quotidiana, in continuo movimento, spesso vissuta e cresciuta in gruppo (l’esperienza comune e un’assidua frequentazione reciproca rappresentano un ulteriore elemento di specificità del movimento), una creatività che prende definitivamente corpo nella New York di fine anni Sessanta-inizio Settanta.
Qui gruppi di adolescenti armati di pennarelli indelebili avevano iniziato a riempire i muri della città con sigle che li identificavano, nomi d’arte, tag. L’idea (almeno quella iniziale) era semplicemente di esserci, di fare apparire il proprio nome nel maggior numero di posti possibile, a cominciare dai muri della scuola, quelli della propria strada, del quartiere. I tag erano spesso l’unione di un nickname e di un numero che identificava la strada in cui il writer viveva. Come nel caso di Taki 183, che nell’estate del 1970 era stato il primo tag a cominciare ad apparire in tutta Manhattan (e poi in tutta la Grande Mela) e tra i protagonisti nel giugno 2019 della mostra Beyond the Streets che aveva occupato due piani e oltre novemila metri quadrati del Brooklyn Museum di New York. Quella di Taki 183 è una storia in qualche modo ormai antica, ma che assomiglia a quella di altri street artist di oggi: dietro quella sigla c’era un ragazzo delle consegne che, per fare qualche soldo in più, teneva per sé quello che il suo datore di lavoro gli dava per il taxi e andava invece a piedi, approfittandone per taggare muri, pali della luce e cassette per le lettere lungo la strada.
La Street Art è poi anche una storia di luoghi (e di battaglie per conquistare il muro migliore, quello più visibile). Che da New York sbarcherà a Parigi, altro luogo «dove — precisa Pizzuto — è nato il tanto decantato sistema dell’arte contemporanea che conosciamo oggi, dove gli esclusi dal vecchio sistema, gli impressionisti, avevano urlato al mondo intero di averne le scatole piene di quegli obsoleti meccanismi e convenzioni, decidendo di scardinare le regole, ponendo le fondamenta di un mondo nuovo in cui era il mercato a legittimare gli artisti più che l’accademia». Il passaggio New York-Parigi prenderà forma grazie a figure come JonOne, writer di Harlem «che a un certo punto si è stabilito a Parigi ed è riuscito a trasferire completamente l’energia dei graffiti sulle sue tele, attraverso un processo di trasformazione del writing in una sorta di Action painting».
La mostra di Parma sottolinea anche l’importanza di personaggi «al limite», ma comunque fondamentali per l’evoluzione della Street art. «Questo percorso — aggiunge Giuseppe Pizzuto — vuole essere un viaggio all’interno della Street Art, tema di cui si parla e si vede molto sul web, sui quotidiani, sui social ma di cui ancora si sa poco e si fa fatica a comprenderne a pieno l’impatto».
Si parte così con Andy Warhol: «Sicuramente non uno street artist — precisa Pizzuto —. Ma altrettanto sicuramente una tra le personalità artistiche che più ha influito sul panorama culturale mondiale, e quindi anche sulla Street Art, con la sua idea di ripetizione e ripetitività, che accomuna tanto il writing, che ripete ossessivamente il proprio nome, quanto la Street Art, dove a essere ripetuta è la propria immagine-simbolo. A legare profondamente gli street artist a un mito come Warhol è appunto l’uso di immagini provenienti dalla vita americana di tutti i giorni, la ripetizione ossessiva di queste immagini che diventa un bombardamento visivo, la consapevolezza che tutti vogliano essere famosi e soprattutto visibili, l’ossessione per le icone, anche le più abusate, del cinema, della musica, dell’arte».
In questo percorso scandito da opere certo non accademiche (Madonne, scorci urbani, piccole figure ispirate alle creature di Takashi Murakami, insegne trasformate in affreschi cittadini) trovano concretezza nomi da tempo inclusi nell’empireo dell’arte contemporanea. Come Obey, protagonista di una grande monografica in corso fino al 27 ottobre alla Fabbrica del Vapore di Milano e autore del ritratto della candidata democratica alle presidenziali Usa Kamala Harris. O come l’arcinoto Banksy, che lo scorso agosto ha fatto notizia con i suoi nove stencil disseminati per le strade di Londra. Tra i meriti della mostra c’è però anche quello di riportare in primo piano una figura come il francese Blek Le Rat a cui proprio Banksy è debitore. Lo stencil reso celebre da Banksy, infatti, in realtà è stato importato nel campo della creazione di opere d’arte nel contesto urbano proprio da Blek Le Rat, considerato uno dei padri della Street Art «per come la conosciamo oggi» e che aveva iniziato ad utilizzare questo stesso strumento nel 1981, una ventina d’anni prima dello stesso Banksy.
«All’inizio la mia firma fu un animale che diventò sempre più simile a un cane. Poi cominciai a disegnare un bambino che andava a quattro zampe e più lo disegnavo e più è diventato The Baby»: così si raccontava Keith Haring, anche lui in mostra a Palazzo Tarasconi. Haring è, per tante ragioni, uno dei «padri nobili» della Street Art: per la sua assidua frequentazione con i writer; per quel suo voler dipingere sui muri delle strade, sugli spazi pubblicitari della metropolitana newyorkese come nei cantieri (quello realizzato nel 1983 per l’Haggerty Museum di Milwaukee era stato poi rimontato nel 2012 nella Reggia di Caserta); per quelle figure costantemente sospese tra Walt Disney e il Neo Pop.
Proprio come accade per la Street Art, nei segni del writer eccellente di Reading si rispecchia il disagio sociale diffuso di un’intera generazione di giovani americani. Un disagio trasformato dal brio e dalla vivacità di Haring (un brio e una vivacità che gli derivano dal fumetto) in una sequenza di immagini di volta in volta gioiose, irriverenti, drammatiche oppure dolorose. Elementi che si ritroveranno nel grande murale creato da Haring nell’estate del 1989 sulla parete esterna della canonica della chiesa di Sant’Antonio Abate a Pisa, ultima opera pubblica dell’artista statunitense, nonché l’unica pensata per essere permanente. Ulteriore conferma di come l’Italia, il Belpaese dell’arte diffusa nelle strade e nelle piazze, possa essere anche il Belpaese della Street Art.