Il Messaggero, 18 settembre 2024
In morte di Ernesto Alicicco, medico della Roma per ventitré anni
Quelli un po’ più avanti con gli anni, quelli che portano nel cuore la Roma di Liedholm e di Agostino, ricorderanno per sempre quell’uomo che correva per il campo con il passo corto, la pancia in avanti e la cravatta al vento, sempre al fianco di Giorgio Rossi, un altro pezzo di storia della Roma. Quell’uomo era Ernesto Alicicco, medico del club giallorosso per ventitré anni: se n’è andato ieri mattina, e il 7 novembre avrebbe compiuto novant’anni, i funerali domani alle 11 in Piazza dei Quiriti. Ha attraversato l’era di Anzalone, di Viola, di Ciarrapico («ma quella non era la mia Roma», disse in un’intervista al Romanista di qualche tempo fa) e di Sensi: dal 78 al 2001. Veniva dalla Lazio, faceva il portiere e poi, con la laurea (in Farmacia e poi in Medicina) in mano aveva cominciato come vice del professor Ziaco proprio nel club biancoceleste. Gli davi del laziale? Si arrabbiava da morire, negava, ma poco importa, ci si faceva una risata, nessuno a Trigoria se n’è mai fatto un problema. La stessa risata usciva spontanea al racconto delle sue immancabili barzellette. Tre minuti di dialogo con lui? Due erano riempiti dalle barzellette, dalla sua loquacità, dalle sue battute sempre pronte. Per il resto la sua missione da professionista della Medicina – oltre all’hobby che aveva per le macchine da rally – era rimettere in piedi i calciatori, o proteggerli pure quando si rendevano protagonisti di qualche ragazzata di troppo e magari avevano difficoltà ad allenarsi, e allora interveniva proprio Ernesto, che mandava il ragazzo di turno in infermeria a curare un qualcosa che non c’era. Presente quel glaciale pomeriggio a Bologna nel 1989, quando Manfredonia stava per perdere la vita, c’era anche quando a Nela si era fermato il cuore a Napoli (Ernesto raccontò che Sebino giocava in quella stagione senza l’idoneità sportiva). C’era pure quando nel 1990 a Trigoria deflagrava il caso Lipopill, coinvolti Peruzzi e Carnevale, beccati per una sostanza, la fentermina, presente nelle pasticche che tolgono la fame, e che oggi non è più nemmeno nella lista delle sostanza dopanti. La prese malissimo, il doping non era roba sua. Lui – questo raccontava sempre – praticava il doping psicologico, ovvero: far credere ai calciatori di somministrargli un farmaco, senza averglielo somministrato. L’effetto placebo funzionava soprattutto con i calciatori un po’ ipocondriaci, ma qui sorvoliamo sui nomi. Ne ha visti, anche di illustri, con la soglia del dolore bassissima. Ha combattuto con le ginocchia di Ancelotti, con l’unghia di Falcao, con i muscoli di Voeller e Giannini, con l’appendicite di Bruno Conti e con i silenzi di Di Bartolomei, e proprio il Capitano lo portò nella Roma: lo aveva conosciuto verso la fine degli anni Settanta, quando andava a farsi curare nel suo studio privato in Prati, insieme con altri giallorossi dell’epoca, come Paolo Conti e Santarini. Ernesto ha visto nascere e crescere Totti e lo ha accompagnato fino alla porta dello scudetto.Campione d’Italia nel 1974 con la Lazio, da assistente medico, è stato un faro del titolo della Roma del 1982-83, Capello gli negò il terzo gioiello, quando proprio nel 2001 impose come medico sociale Mario Brozzi, che fino a qualche settimana prima era nel suo staff. La sua avventura in giallorosso terminò con un fax inviato proprio da Don Fabio, mentre era ancora in vacanza. La sua vita da medico ha avuto un pezzo di Roma anche oltre il raccordo. Era finito a Brescia, con Carlo Mazzone, un altro suo fratello, con cui aveva giocato nel Siena ad inizio degli anni Sessanta. Il periodo bresciano pieno di soddisfazioni e di casi che lasciano il segno: i due affrontarono tante sventure, dagli infortuni in serie a Roberto Baggio sino alla morte tragica di Vittorio Mero, passando per la squalifica per doping di Pep Guardiola.