La Stampa, 18 settembre 2024
Anche lo Stato non è indenne da colpe
È sorprendente lo sperpero d’indignazione, peraltro sempre più stanca, alle frequenti e spesso processualmente infondate notizie di corruzione: l’accontentarsi di uno sdegno superficiale senza andare dentro le storie, dove si trovano i guasti veri del nostro vivere. Il patteggiamento del presidente della Liguria, Giovanni Toti, è per esempio una fiaba di Esopo, a saperla leggere. Sconterà due anni e un mese per corruzione impropria, e credo che il novantanove per cento di noi ignori la differenza con la corruzione propria. Facciamo il caso di un ristoratore che voglia mettere i tavolini all’esterno. Non ne ha diritto e allora paga per avere l’autorizzazione: corruzione propria. Oppure ne ha diritto, sta aspettando l’autorizzazione da due anni, e siccome non ne può più paga per averla: corruzione impropria. La differenza non è banale ed è difficile, nel caso della corruzione impropria, capire se l’imprenditore abbia pagato il politico per ottenere un favore, ed è reato, o finanzi un politico che finalmente ha fatto il suo dovere, e reato non è. Un bel problema. Ma il problema vero, di fondo, su cui bisognerebbe fissarsi e magari spandere un po’ di sana indignazione, è uno Stato che punisce un imprenditore costretto a pagare per un suo diritto poiché quel diritto lo Stato non glielo riconosce. Lo fa aspettare. Perde denaro? Chi se ne importa. Non può assumere? Pazienza. L’imprenditore, forse, danneggia altri come lui, come lui in attesa e che per causa sua aspetteranno ancora. Lo Stato invece fa aspettare tutti e danneggia tutti perché non funziona, e se ne infischia. Però poi in tribunale è inesorabile.