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 2024  settembre 18 Mercoledì calendario

Biografia di Enrico Rava

Come va con le oche?
«Quelle maledette. Ancora oggi mi fanno paura. Durante la guerra con la mia famiglia siamo stati sfollati in campagna, a Villafranca Piemonte. Vivevamo in un appartamento, con un grande cortile dove c’erano le oche. Non rompevano le scatole a nessuno ma appena passavo io partivano all’attacco, costringendomi a fughe spaventose».
Cos’altro ricorda?
«Il giorno della Liberazione, a Torino. Tutti sui balconi, io, i nonni, mamma e papà. I cecchini che sparavano dagli abbaini mentre passavano i camion con i partigiani. E gli americani. Anche da loro nasce il mio folle amore per il jazz» 
Enrico Rava, 85 anni, è un maestro del jazz italiano, noto in tutto il mondo. «Ora però da 70, 80 concerti all’anno, ho ridotto a 3 forse 4 al mese, quasi tutti in Italia, eccezionalmente in Europa. Basta viaggi intercontinentali, ho paura di non sentirmi bene quando sono lontanissimo da casa. Moravia diceva che l’età non ha importanza, a pesare sono gli acciacchi, che io ho in gran numero. Continuo perché con il mio nuovo gruppo c’è una sintonia pazzesca»
L’infanzia durante la guerra.
«Non c’era da mangiare. Si erano inventati il pane di riso. Appena uscito dal forno non era male, ma dopo un’ora diventava una pietra. Al posto dei vetri le finestre avevano i cartoni. La notte, quando suonava la sirena che annunciava i bombardamenti, papà e mamma litigavano perché lei non voleva andare nei rifugi, che poi erano le cantine. “Se colpiscono il palazzo rimaniamo sepolti là sotto”. Con gli americani, di colpo, mangiavo cioccolata, prosciutto, salame, formaggi, latte, pane. È arrivato tutto insieme, il gel, il cinema».
E il jazz.
«Mio fratello, otto anni più grande, aveva una trentina di 78 giri. Non bisognava farli cadere, se no si frantumavano in mille pezzi. Ero un bambino, ma quella musica mi appassionò in modo esagerato, ne capivo il meccanismo».
La passione per la musica l’avrà ereditata da sua madre Andreina, pianista.
«Macché, a lei il jazz faceva l’effetto di una nenia giapponese. Quando avevo cinquant’anni mi disse: “Allora Enrico, quand’è che ti metti a lavorare?”. Italo-svizzera, di famiglia borghese, diploma al conservatorio, cucinava benissimo, ricamava, sapeva anche fare le riparazioni elettriche, a differenza di papà, me e mio fratello. Senza di lei saremmo finiti in un fosso».
A scuola era un disastro. 
«Lo capii dal primo giorno: “Non è per me”. Luci fioche, i grembiuli, i fiocchi, i banchi deprimenti. A 16 anni mollai tutto e andai a lavorare nell’azienda di trasporti internazionali della mia famiglia».
Come finì?
«Odiavo quella parte della mia vita. Mi sarei buttato dalla finestra se non ci fosse stata una ragazza con la quale stavo bene e il jazz. Avevo imparato da solo a suonare la tromba ed ero un dilettante, però mi chiamavano per delle jam session. Fino alle cinque del mattino parlavo e bevevo con gli altri musicisti. Alle 7 squillava la sveglia per l’ufficio».
Ci andava con la spider rossa. 
«Regalo di mamma, aveva un tubo di scappamento che faceva un gran casino. Arrivavo e mi chiudevo in bagno, mi addormentavo fino a quando fuori dalla porta si formava una fila di gente».
Come cambiò la sua vita?
«Incontrai Gato Barbieri in uno di questi concerti da dilettanti. Era una star in Argentina, in Italia non lo conosceva nessuno. Mi disse: “Hai un bel suono, perché non ti dai da fare?”. Un paio di mesi dopo mi chiamò a Roma. Mollai tutto. Fu una tragedia familiare, papà mi tagliò ogni aiuto».
Non andavate d’accordo già da prima.
«Alle medie un insegnante gli consigliò di mandarmi al liceo artistico. Lui: “No! È roba da signorine”. Allora gli chiesi di iscrivermi al conservatorio. Niente, voleva la laurea. Diventai la pecora nera della famiglia. Per dispetto gli cantavo Bandiera rossa, oggi non lo farei più».
In viaggio verso la capitale su una 600 bianca.
«Che aveva preso il posto della spider. Io e un amico batterista. Non c’era ancora l’autostrada. Da Torino si arrivava a Roma percorrendo l’Aurelia. Ci volevano dodici ore. Le abbiamo passate cantando a squarciagola. Ero felice».
A Roma suonava al Purgatorio.
«Era la cantina del ristorante Meo Patacca, apparteneva a un californiano che faceva pure l’attore. I primi giorni poca gente, poi arrivò il principe Pepito Pignatelli che si portò dietro i Colonna, i Borghese. Diventò un locale alla moda. Vennero anche Marcello Mastroianni e Anita Ekberg. Dovevamo stare lì due settimane, siamo rimasti nove mesi».
La Dolce Vita.
«Io e Gato abitavamo in via Capo le Case. Alle cinque del mattino, prima di andare a dormire, compravamo i giornali in via Veneto. Era sempre piena di gente: attori, registi, ballerini. Di colpo, per me che arrivavo dalla grigia e operaia Torino, la vita diventò bellissima».
Poi l’Inghilterra.
«Mi chiamò Steve Lacy, grande sassofonista americano. A Londra fu uno choc: minigonne, capelli lunghi, canne, c’era di tutto. Con altri due fantastici musicisti, fuggiti dal Sudafrica, suonavamo una musica che piaceva solo a noi: radical improvisation. Al Festival jazz di Sanremo più di metà del pubblico andò via dopo un quarto d’ora. I pochi rimasti litigavano: c’era chi ci amava e chi ci detestava. La tournée fu cancellata».
A Buenos Aires conobbe Piazzolla.
«Era il ’66, camminavi per strada e sentivi il tango uscire dalle finestre, dai bar, dai jukebox. Avevano aperto un nuovo locale, il Gotan. Suonavamo noi e il quintetto di Astor. Era geniale, un po’ incazzoso, un tipo sanguigno, andò in paranoia quando lo lasciò sua moglie».
Dopo Buenos Aires tappa a New York.
«Andai a vivere a casa di Gato, nella Ottantunesima all’angolo con la Prima. Poi lui partì per Parigi e mi lasciò l’appartamento, pagavo pochissimo, 80 dollari al mese»
È vero che suonò sotto Valium quando scoprì che Miles Davis era in sala?
«Chiamai la mia prima moglie e mi feci portare le pasticche. Per un trombettista Miles era una leggenda. Bipolare, poteva essere tremendo. Però con me fu molto carino, cortese. Mi diede una pacca sulla spalla nel camerino».
Tra i suoi fan Mike Bongiorno.
«Suonavo al Blue Note di Milano. Era seduto in prima fila, con moglie e figlio, non riuscii a salutarlo. Allora gli inviai un cd con poche righe. Mi rispose con una lettera, dicendomi che mi seguiva da due anni, amava il jazz e che a New York, negli anni Quaranta, lavorava come assistente del dj jazz Symphony Sid. Capii che era un meraviglioso pazzo. Guidò con la nebbia da Milano a Torino per assistere a un mio concerto».
Contatti ravvicinati con qualche rockstar?
«Il rock l’ho apprezzato tardi grazie alla mia seconda moglie Lidia. A New York ero un talebano del jazz, in giro si sentiva Michael Jackson che in quegli anni stava con i Jackson Five. Io, ignaro: “Quanto è brava questa bambina”».
Aprì l’ultimo concerto di Janis Joplin all’Harvard Stadium di Boston.
«Io, Charlie Haden, Gato Barbieri, Jimmy Strassburg arrivammo in limousine, c’era un casino di gente. Suonammo venti minuti di free jazz. Scappammo via prima che ci ammazzassero».
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