Corriere della Sera, 18 settembre 2024
Beppe Grillo, l’ex Elevato in caduta libera
«E adesso cosa facciamo?». Era un attimo dopo le lacrime e i pianti, e la marcia stretti l’uno all’altro davanti a Beppe Grillo che cedeva spazio alle giovani leve, e il grido onestà onestà all’uscita del feretro di Gianroberto Casaleggio dalla chiesa di Santa Maria alle Grazie. «Non si cambia e non si molla di un centimetro» aveva lasciato scritto il cofondatore nell’ultimo post, scritto dal suo letto d’ospedale.
Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista e Nicola Morra sedevano su un panettone di cemento davanti al bar Magenta con un boccale di birra in mano e un dilemma nella testa. Notati alcuni giornalisti, se la presero con loro. «Guardateci e imparate da noi cos’è la coerenza» disse il primo. «Sciacalli» aggiunse Dibba, indignato con la stampa che sosteneva come con la scomparsa del titolare e proprietario dell’omonima agenzia a quei tempi considerata come una specie di Spectre del populismo non ancora di governo, finiva anche una certa idea di Movimento. «Pensate a fare il vostro mestiere, che al bene del M5S ci pensiamo noi» scandì Morra, come sempre professorale.
Non è meschineria ma semplice cronaca l’annotazione che nessuno dei tre protagonisti di quella reprimenda fa più parte dei Cinque Stelle, ognuno per una ragione diversa da quella del suo ex compagno di strada. La verità è che li abbiamo visti arrivare nell’inverno del 2013 con lo Tsunami Tour di Grillo. E li abbiamo visti andare via. Perché il M5S delle origini, quello impregnato di retorica anticasta che avrebbe cambiato la politica italiana, è davvero morto con il suo ideologo.
Soltanto loro hanno fatto finta di non capire, illudendosi di poter mantenere al tempo stesso una diversità che scoloriva con l’avvicinarsi al potere insieme a un processo di crescita che si nutriva più di occupazione dei palazzi che non di nuove idee. Dibba e Di Maio non potevano stare insieme nello stesso corpo. «Sono un po’ stanchino» disse Grillo nel 2017, annunciando il suo ritiro sulla collina di Nervi. Era stato al volante pochi mesi, mostrando una mano alquanto incerta, testimoniata da una vicenda oggi dimenticata come il maldestro tentativo di collocare il M5S tra i Liberali europei, senza prima avvisare questi ultimi della sua intenzione. Da leader, diventava Elevato, un semplice controllore. Dietro l’abiura a un ruolo che era l’unica garanzia di continuità c’era forse anche una questione più personale. La sua mancata riconciliazione con Casaleggio, dopo una litigata da tregenda sui destini della loro creatura, è stata forse la causa primaria di una cesura così definitiva tra il prima e il dopo.
Perché lo strappo fu brutale e il nuovo corso fu annunciato dai completi color blu ministeriale di Di Maio, il «deputatino» incoronato a malincuore mentre il figlio prediletto Dibba veniva gentilmente avviato a una carriera da reporter in giro per il mondo. Con la vittoria alle Politiche del 2018, inattesa nelle dimensioni, vennero le agognate responsabilità di governo e con loro la necessità di stringere alleanze, non importa con chi e per cosa, basta arrivarci. Anche con i compromessi. A cominciare da quello che portò a Palazzo Chigi un oscuro avvocato pugliese, tale Giuseppe Conte. Così, nel momento del trionfo, mentre Di Maio dichiarava sconfitta la povertà del balcone di piazza Venezia, e al tempo stesso attaccava le Ong che salvavano i migranti nel Mediterraneo, si compie la mutazione definitiva.
Il Movimento è costretto a sporcarsi le mani con la stessa politica da loro ritenuta una cosa sporca. In un angolo, quasi fosse una nota a margine, si agita invano Davide Casaleggio. A posteriori, l’unico che in questo gioco di consapevoli finzioni pentastellate ha provato a essere se stesso fino in fondo, ricordando a tutti che suo padre, che pure non si era fatto problemi a fare convergere i suoi voti per portare Romano Prodi al Quirinale, rimaneva il teorico del 51 per cento. Al potere sì, ma da soli, altrimenti solo appoggio esterno. È durato come un gatto in tangenziale. L’unica cosa su cui Conte e Di Maio sono mai stati d’accordo era nel congedare lui e le sue pretese di democrazia diretta. In versione Salomone, durante la disfida tra le due anime, Grillo diffidò sia il giovane Casaleggio che Di Maio dall’uso del simbolo.
Il passaggio al Contismo cancella quei pochi elementi delle origini ancora presenti, per quanto annacquati. La celebre piattaforma Rousseau, non a caso varata il giorno della morte di Casaleggio, finisce ben presto in soffitta. In un Movimento dove si votava via web anche per l’eventuale riapertura delle case chiuse (vinsero i no), da due anni passa sulla testa degli iscritti qualunque cosa. Dalle scelte in Europa all’appoggio al centrosinistra nelle elezioni locali.
«È un incapace che sta scrivendo uno statuto seicentesco». Il video di cinque minuti del 29 giugno 2021 con il quale cercava di impedire l’arrivo dell’avvocato del popolo appena cacciato da Palazzo Chigi è stato l’ultimo sussulto di sincerità di Grillo. Al quale sono seguiti tre anni di silenzio ben stipendiati. Era chiaro che tra due personaggi che non si sono mai sopportati, non ne sarebbe rimasto che uno. O forse, nessuno. Grillo invoca il rispetto delle regole e della purezza di una volta dopo aver assistito fischiettando al loro calpestamento. Conte giustifica la sua scalata ostile, perché di questo si tratta, invocando una democrazia diretta della quale non conosce neppure l’indirizzo. Abbiamo assistito a finali di partita più dignitosi. Intanto, in regioni un tempo fertili come l’Emilia-Romagna non si fatica solo a trovare gli elettori. Mancano i candidati per riempire le liste delle prossime Regionali. Non resta più niente. Ma era già così da molto tempo.