il Fatto Quotidiano, 17 settembre 2024
Matteo fa l’agnellino
Conosco Matteo Salvini da quando beveva birra al centro sociale Leoncavallo, tifava Milan tra i bandieroni degli Ultras e appena diventato il ragazzotto di bottega della Lega Nord, usava il tricolore come fosse uno straccio per pulire i davanzali della Padania cantando: “Senti che puzza, scappano anche i cani, sono arrivati i napoletani”.
Fa ridere e fa piangere rivederlo immerso nel bianco e nero shakespeariano del video, con faccia truce, camicia stirata e occhio espanso mentre scandisce la sua memoria di agnello sacrificale. Che inizia con larga biografia, “Sono nato a Milano il 9 marzo 1973” per poi concludersi nell’inchiostro funebre della lapide finale: “Mi dichiaro colpevole di avere difeso i confini della patria”.
Ce l’ha con i procuratori di Palermo che hanno chiesto una condanna a sei anni per avere sequestrato 147 migranti accatastati a bordo della Open Arms per 18 giorni, rifiutando l’attracco nel porto sicuro, come prescrive il diritto internazionale del mare che senza deroghe, dispone di salvare per prima cosa i naufraghi. E solo poi discutere di tutto il resto.
Ma Salvini non voleva discutere di niente in quei giorni, mentre indossava la felpa di ministro dell’Interno. Voleva chiudere i confini dello Stato, il patriota, violando quelli del diritto, a esclusivo vantaggio della propria propaganda politica, come scrivono i giudici, perseguita attraverso la forzatura di “un allarme ingiustificato di invasione” da parte di fantomatici terroristi, la falsa pretesa di “un preminente interesse pubblico contro lo sbarco”. Propaganda perfezionata dalla dichiarazione più sventata di quell’agosto 2019: “Processatemi pure, ma non fatemi perdere tempo. Al processo andrò con il sorriso sulle labbra”.
Oggi che è stato accontentato, quella tracotanza e quel sorriso, se li è masticati il chiaroscuro del video. Quel processatemi pure è diventato guai a voi se proverete a condannarmi. E “guai a voi” è diventata la minaccia ripetuta da tutta la schiera di governo, Giorgia Meloni in testa, che dall’inizio della sua avventura legislativa, stringe d’assedio i pubblici ministeri ogni volta che si azzardano a indagare un esponente di maggioranza – Toti, Santanchè, Delmastro – accusando il potere giudiziario di interferire con il loro potere esecutivo.
Non ammettono l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, non ammettono la garanzia democratica della divisione di poteri. Persuasi come sono che il potere sia un bottino che non si spartisce, conquistato una volta per tutte nelle urne, secondo quella linea tracciata da Berlusconi, che fu l’egoarca di ieri e non il liberale vantato dagli smemorati di oggi, al punto da credersi unto del Signore per investitura diretta del popolo sovrano. Linea ampiamente realizzata nelle democrature che ci assediamo da molto vicino: la Russia di Putin, l’Ungheria di Orbán, la Turchia di Erdogan.
Svincolare la politica dalle interferenze della magistratura è la meta. Da perseguire nei giorni pari. Per poi perfezionarla, in quelli dispari, con l’intransigenza opposta e complementare di legge e ordine per tutti (gli altri), tracciando una diagonale che da sola, magicamente, risolverà ogni tensione sociale passando per l’arresto, la pena, il carcere, che si tratti di un cassintegrato seduto sui binari di una stazione, o di un ambientalista sdraiato sull’asfalto. Nulla che interferisca sarà tollerato. Perché è proprio quel pugno di ferro il mandante della prepotenza di Salvini recitata nel suo video di velluto.