La Stampa, 17 settembre 2024
L’egemonia è morta nel Novecento. Quella della destra è occupazione
Non ci sono più le egemonie di una volta. È una frase che sembra riecheggiare uno dei tanti luoghi comuni che affiorano nelle conversazioni da salotto ed è invece la pura verità. Quella a cui stiamo assistendo da parte del governo di centro destra è una vera e propria occupazione del potere che con l’egemonia non c’entra niente perché non esiste più niente di quello che, nel Novecento, era stato il contesto in cui le egemonie culturali e politiche (marxista, cattolica, liberale) si erano affermate. Non c’è più la carta stampata che di quelle egemonie fu uno strumento essenziale. Non ci sono più i giornali, le riviste, le case editrici, e nemmeno i volantini tirati al ciclostile o i manifesti; tutto è stato scalzato dal mondo impalpabile della rete, da una dimensione tecnologica che ha più o meno replicato quella rivoluzione che ci fu secoli fa, innescata dall’invenzione di Gutenberg e ora riproposta da quando i social hanno scalzato la stampa dal suo predominio. Non ci sono più i partiti di massa, quelle organizzazioni novecentesche che accompagnavano con la loro propaganda i propri iscritti «dalla culla alla tomba» e che in Italia si incarnarono certamente nel Pnf ma anche nella Dc, nel Pci, nel Psi, etc... Non ci sono più i militanti che di quei partiti furono il nerbo, né nell’accezione tutta politica, a sinistra, dei «rivoluzionari di professione» né in quella di una militanza cattolica dai toni messianici ed abilissima nel coniugare gli interessi dei singoli con quelli della collettività.
Per quanto riguarda il dibattito storiografico (che è l’ambito che conosco meglio) vorrei ricordare la spartizione che ci fu nella nostra Prima repubblica, quando ogni partito aveva la sua fondazione, intitolata a un eroe eponimo della propria tradizione politica e culturale, alla quale affidare il ruolo di portavoce semiufficiale delle proprie istanze: una lottizzazione della storia e della memoria con un manuale Cencelli rigorosamente applicato anche all’Università (un tot di posti a Renzo De Felice e ai suoi, un tot a quelli del Pci, e così via) che si fondava su un patto non scritto che coinvolgeva l’Istituto Gramsci per il Pci, la fondazione Nenni per il Psi, la fondazione Sturzo per la Dc e così via fino alla fondazione Ugo La Malfa per il Pri. Con la grande slavina del biennio 1992-1994 tutto questo fu spazzato via e a quel punto la lotta per l’egemonia da battaglia delle idee si trasformò definitivamente in occupazione di spazi di potere attraverso i quali diffondere non progetti di società ma vulgate precostruite, usate come randelli con cui picchiare gli avversari politici.
Fu allora che si registrarono i primi cedimenti della carta stampata: la televisione si impadronì dei suoi spazi, ai partiti di massa si sostituì un «partito istantaneo» come Forza Italia, subito premiato dalla maggioranza dei consensi elettorali e concepito da Berlusconi come una costola, un’appendice del suo impero mediatico; i talk show presero il posto delle vecchie tribune elettorali, abolendo i confini in cui erano ristretti in precedenza le apparizioni dei partiti. La televisione si introdusse anche nei meccanismi di selezione della classe dirigente, a destra come a sinistra. Ricordo una Giovanna Melandri, scoperta dalla politica in un «Porta a porta» in cui tenne testa egregiamente a Berlusconi e per questo premiata con la partecipazione come ministra per i Beni e le Attività culturali nei governi D’Alema I, II e Amato II e come ministro per le Politiche giovanili e le Attività sportive nel governo Prodi II. Poi arrivarono i social: i militanti di un tempo, che già erano diventati «spettatori», si trasformarono in followers, legati al loro eroe eponimo solo dalle emozioni e dalle convinzioni che questi riusciva a trasmettere. E all’ideologia, alla battaglia delle idee, si sostituirono le regole del mercato che affiancavano all’audience il numero dei followers e la quantità di pubblicità che si riusciva a veicolare attraverso questi nuovi strumenti.
E anche la lotta per l’egemonia diventò una questione di potere legata alla possibilità di occupare dei posti a di arrivare a gestire le risorse che il mercato e il profitto mettevano a disposizione dei nuovi media. Lo ha detto bene Massimo Cacciari: la lotta per l’egemonia, quella vera, chiamava in causa il destino degli uomini e delle donne che appartenevano al popolo, implicava priorità, gerarchie di valori, si alimentava di sacrifici e rinunce, di scelte che andavano continuamente ribadite in una quotidianità fatta di conferme e delusioni ma sempre improntata a una enorme fiducia nel futuro. Oggi questo futuro non c’è più, annientato da un presente onnicomprensivo che ingloba voracemente anche il passato, dilatandosi in maniera parossistica e cancellando l’utopia (insieme alla speranza) dal lessico della politica. Una egemonia senza futuro, senza utopia, senza un destino da proporre si riduce a quello a cui la destra ci fa assistere: occupare i posti che prima erano della sinistra per compiacersi nel taglio dei nastri e, nella vacuità delle stanze del potere, assaporare piaceri prima proibiti e impensabili. Mussolini, nel 1926, creò la Reale accademia d’Italia, un organismo che voleva programmaticamente sostituirsi all’Accademia dei Lincei organizzando la cultura in termini più funzionali alla volontà del regime e ancorando le proprie radici alla Prima guerra mondiale. Tra i nemici che Mussolini indicava come bersagli della nuova istituzione c’erano, guarda un po’, «il macchinismo», «la sete di ricchezza», «il ritmo della civiltà contemporanea» e «un’eclissi dello spirito che sembra ormai rivolto soltanto a conquiste di ordine materiale». Era pura propaganda e i suoi eredi sono tra i primi ad averlo capito.