la Repubblica, 17 settembre 2024
La lunga storia di odio e amore tra Beppe Grillo e Giuseppe Conte
C’eravamo tanto amati, ma forse no. Grillo e Conte, il Fondatore e il Successore, più che amati si erano finora tollerati, e poi affidati e insieme diffidati, a tratti ignorati, quindi sbeffeggiati e minacciati anche, lungo una gamma di sentimenti che bene o male rendono il senso delle relazioni politiche in tempi poveri di ideali e progetti.C’eravamo tanto amati, dunque, e magari ultimamente addirittura odiati, ma alla fine arriva il giorno in cui i rattoppi, i patti e i contratti non reggono più, la litigata divampa e l’edificio crolla: è destino delle comunità carismatiche, e se la parola può suscitare oggi qualche legittimo sospetto, beh, fermo restando la miseria della cronaca con le sue lettere da avvocatucci e i vittimismi da protagonisti ridotti all’ombra di se stessi, si può serenamente aggiungere che il Movimento cinque stelle non è stato solo carismatico, ma anche e debitamente messianico e a suo modo perfino apocalittico assegnando a se stesso una sorta di onnipotenza, sognandosi al centro di scenari arditi, prefigurando una salvezza universale.Dice: ma davvero? Eh sì, la memoria collettiva è corta, ma per una manciata di anni, l’ebbrezza spirituale e il fervore fideistico spinsero l’orizzonte visionario di Grillo e Casaleggio fino a comprendere le sorti del pianeta. Poi, più prosaicamente, le elezioni del 2018 incoronarono il M5S primo partito e spuntò fuori – non si è mai capito bene da dove – l’Avvocato del Popolo dal bel ciuffo e dall’eloquio democristoide. Subito Grillo gli mise addosso Rocco Casalino, che molto a suo modo sapeva il fatto suo e che, detto in parole povere, lo teleguidava come un burattino, anche con successo.L’uomo forte nel quale il Fondatore aveva riposto le sue aspettative era in realtà il giovanissimo Gigino Di Maio, cui un po’ le contingenze e molto le convenienze avevano dato poteri mostruosi. Conte lo sapeva benissimo, ma da Palazzo Chigi si ritagliò un ruolo “istituzionale”, con tutto quel che di ambiguo questa parola, ma ancora di più le virgolette trasmettono tanto ai gonzi quanto ai volpini – che subito notarono come il premier lavorasse per conto suo, dalle “bimbe” di Instagram a Donald Trump.Grillo lasciò fare. Si può aggiungere che a cavallo tra gli anni 10 e20 non sapeva neanche lui qual era il suo ruolo, il suo compito e il suo futuro. È plausibile che pensasse di poterselo permettere, tipico errore da leader incapace di distinguere il carisma da se stesso. Perciò ondeggiava senza grande costrutto fra teatro, blog, hotel Forum, piattaforme Rousseau, appoggiando questo o quell’esponente o manifestandosi con messaggi sempre più criptici, senza mai smettere di lamentarsi che con la politica aveva perso un sacco di soldi.Così da un lato sembrava chiamarsi fuori, dall’altro si proclamava, con tanto di apposito budge, l’Elevato. A un certo punto si propose come una specie di idolo a valenza scherzosa e religiosa. Intanto Conte faceva Conte, cioè quel che compostamente gli conveniva preparandosi a fare il salto da burocrate a leader sostitutivo. Quando Gigino ebbe compiuto il suo suicidio elettorale, l’Avvocato del Popolo divenne il capo del movimento e Grillo ci rimase male, pur lambiccandosi sul che fare nella sua irrequieta indeterminatezza.Seguirono sviluppi che non resteranno nell’albo d’oro della storia politica, ma trovano sintomatica sintesi in una foto dei due attorno a un tavolo – da pranzo, ma in quel caso senza vivande – al mare. Era il classico compromesso. Il carisma, infatti, non è eterno e tra scontrini, espulsioni, avvocati, doppi mandati e personaggi pazzeschi il fideismo messianico da un bel pezzo era andato a farsi benedire. Ma è comprensibile e anche umano che l’Elevato continuasse a voler buttare un occhiuto sguardo su quelle vicende come chi nel bene e nel male aveva dato vita a quella creatura allo sbando.Al posto dell’immateriale ecco allora che Conte, ben consapevole di quanto Grillo fosse simile alla figura di Arpagone, l’Avaro di Moliere, offrì al Fondatore, in qualità di “innovation hunter”, cacciatore di novità sul piano della comunicazione, la concretissima materialità di un misterioso contrattone da 300 mila bombi l’anno. Al che il perfido Gigino osservò che Grillo aveva “300 mila buone ragioni” per smettere di fare troppo lo schizzinoso rispetto a Conte che gli stava “portando via l’argenteria”. Siccome siamo tutti esseri imperfetti, se ne può dedurre che così vanno a finire le vicende carismatiche. Uno da una parte, uno dall’altra; in mezzo resta un triste ricordo – se mai qualcuno abbia tempo e voglia di tenerlo a mente