Corriere della Sera, 17 settembre 2024
Intervista a Lucia Magnocavallo, vedova di Giuseppe Pontiggia
Lucia Magnocavallo ha conosciuto Giuseppe Pontiggia, detto il Peppo, il 30 maggio del 1957: «Era un amico di amici comuni con i quali avevamo organizzato di andare a ballare alla Triennale. Da lì abbiamo cominciato a frequentarci e il 9 luglio 1963 ci siamo sposati. Nel 1969 è nato Andrea. Sono 21 anni che il Peppo non c’è più ma la sua presenza in casa si sente sempre: nei suoi libri, che più rileggo più apprezzo, nelle dediche che ha scritto... in tutto».
Qual è il libro di suo marito che le piace di più?
«Sicuramente “Vite di uomini non illustri”, un libro geniale, anche se è ovvio che “Nati due volte” è quello a cui sono più affezionata, perché è ispirato alla nostra vita familiare».
È il romanzo autobiografico, che racconta la vicenda di Andrea, il figlio nato con tetraparesi spastica distonica in conseguenza di una sofferenza perinatale.
«No, il vero romanzo autobiografico di Peppo è “La morte in banca”, che racconta la storia di un giovane costretto, dalla situazione economica della famiglia, a lavorare in banca, pur avendo aspirazioni diverse. “Nati due volte” è molto ispirato alla nostra vita familiare, ma è un romanzo, come ci teneva molto a sottolineare Peppo, tanto che c’è anche un personaggio inventato, un fratello che Andrea non ha mai avuto».
Il Peppo vi rendeva partecipi del suo lavoro di scrittura?
«Lavorava in casa nel suo studio, ma ogni tanto compariva: andava in cucina e metteva la testa nel frigo per cercare non so che cosa, oppure chiedeva la nostra opinione su una parola, o frase, o pagina, e se gli dicevi di aspettare un momento perché stavi facendo qualcosa, si irritava. Comunque era molto attento alle nostre reazioni e spesso seguiva i nostri consigli. Ad esempio, il titolo di un capitolo delle “Vite” gli fu suggerito da Andrea: Lembo di cielo».
Lavorava tanto?
«Tutto il giorno, ma mai di sera. Di sera leggeva o guardava la televisione. Seguiva molto lo sport. Da giovane era un fanatico dell’Inter. Ricordo che una volta sono andata allo stadio con lui, con il fratello Giampiero e con un amico... Sarà stato nei primi Anni 60, non eravamo ancora sposati. Erano pazzi, sono usciti senza voce, da tanto hanno urlato... Un’altra volta sono andata con lui di sera, e ricordo che in campo c’era anche Pelé».
Forse era il giugno 1963 in cui l’Inter vinse con il Santos?
«Non mi ricordo, ma c’erano tanti colori del Brasile, una vera e propria festa».
Che cosa le manca del Peppo?
«Mi manca abbastanza tutto... Lavorando in casa te lo trovavi spesso dappertutto. Fisicamente non potevi non vederlo... Ancora adesso, più di vent’anni dopo, ogni tanto mi viene spontaneo dire: ehi, Peppo, guarda qua...».
Qualcosa che le dava fastidio?
«Se diceva: vado a dormire alle 11 e 5, alle 11 e 5 dormiva... Che invidia! Oppure il pomeriggio diceva: mi riposo tre minuti e poi dopo sto meglio. Dopo esattamente tre minuti si svegliava e ricominciava a lavorare come se avesse dormito due ore. Aveva una specie di telecomando in testa… Solo la sera in cui è morto, è stato diverso. Riguardava una partita di tennis del torneo di Wimbledon, probabilmente la davano registrata. Era lì seduto su quella poltrona. Si è alzato, ha detto che non stava bene, è andato a letto, ma dopo un po’ è tornato, era agitato, non riusciva a parlare, gli dico: vuoi andare in ospedale? Mi ha stretto la mano per dire sì... E dopo non so più bene... è arrivata l’ambulanza. Andrea per la prima volta passava la notte fuori».
Andrea è qui a poca distanza da noi, nel soggiorno di casa Pontiggia, seduto su una poltrona.
«È la poltrona che ho regalato al Peppo 15 giorni prima che morisse. Se n’è impadronito Andrea, che ha voluto per sé anche lo studio di suo padre: lo occupa da ventun anni, dalla morte del Peppo».
E come passa il tempo nello studio di suo padre?
«Sta ore e ore al computer per vedere cose sul Peppo. Qualche volta trova documenti che neanche sapevamo che esistessero. Andrea è sempre stato il nostro computer. Il Peppo aveva una memoria impressionante, e anche Andrea. Quando Renata Colorni ha deciso di fare, a cura di Daniela Marcheschi, il Meridiano Pontiggia, Andrea è stato fondamentale: date, luoghi, nomi... Sapeva e sa tutto».
Andrea chiama dall’angolo in cui sta seduto e lo raggiungiamo. Che cosa ti manca di tuo padre?
«Mi manca tutto. Mi mancano le nostre conversazioni: parlare con lui era sempre bello, si imparavano tante cose. Ho sempre ammirato la sua semplicità».
Lucia ricorda il rapporto molto dolce che c’era tra Andrea e suo padre.
«Se stava male, voleva che Andrea gli stesse vicino tenendogli la mano».
Questa casa conteneva una biblioteca leggendaria di quasi 40 mila volumi, quella di Pontiggia, con librerie sospese al soffitto per sfruttare tutti gli spazi. Ora i libri sono nella sede milanese della Biblioteca europea di informazione e cultura.
«Il Peppo era gelosissimo dei suoi libri. Per un certo periodo se qualcuno osava prendere tra le mani un volume della sua biblioteca, e lo apriva un po’ per leggerlo, io mi rendevo conto che cambiava umore, e il giorno dopo andavo a comperarne un’altra copia per sostituirlo, e lui si rasserenava. Poi con l’età si è fatto più morbido».
Si racconta che il rapporto tra il Peppo e suo fratello, il poeta Giampiero Neri, è stato un rapporto travagliato.
«Sì, c’è stata un po’ di incomprensione, a fasi alterne, ma in età avanzata si sono ritrovati. Il Peppo leggeva le poesie di suo fratello con attenzione ed era sempre prodigo di consigli, e Giampiero faceva lo stesso con Peppo. Con Andrea è stato in certi periodi anche molto affettuoso: tante volte lo chiamava a casa sua e gli raccontava la vita degli antichi romani».
Andrea chiama di nuovo, ha voglia di ricordare ancora suo padre.
«È capitato che i miei professori delle superiori lo chiamassero a leggere e commentare testi di poeti dialettali: papà parlava con tale semplicità e chiarezza che era commovente vedere l’interesse e l’attenzione di tanti miei compagni, normalmente inclini alla distrazione. Anche nella scrittura era altrettanto semplice e chiaro: “Il Raggio d’ombra” ha dialoghi talmente veri che sembra di viverli».
Lucia ricorda gli anni più duri. E adesso?
«Andrea è stato bravissimo, sa accettarsi: non tutti ne sono capaci. Molti che hanno lo stesso problema vivono nella rabbia contro il mondo intero... Lui qualche volta mi chiede: mamma, cosa dici, io ho una vita quasi normale? È molto religioso e ci tiene che lo accompagni in chiesa la domenica. Io non ho la sua invidiabile fede».
Lei ha lavorato a lungo in Adelphi. Che ricordo ne ha?
«Ho fatto parte dal 1967 della redazione, dove ho collaborato fino a dopo la morte del Peppo. Il caporedattore era Piero Bertolucci. Ho potuto lavorare, dopo la nascita di Andrea, grazie all’aiuto di mia suocera, che è venuta temporaneamente ad abitare con noi: è stata una suocera d’oro. In Adelphi sono stata amica anche di Luciano Foà. Era un grandissimo uomo, all’inizio eravamo in pochi e tutti lo adoravamo. L’Adelphi era Foà. Ho molta nostalgia dell’Adelphi di quei tempi».
E Roberto Calasso?
«Lo vedevo poco. A tre anni Andrea aveva imparato a mettere insieme delle grandi lettere mobili per comporre delle parole. Una volta il Peppo lo portò in casa editrice a trovare Roberto Calasso. Ricordo che Calasso scoppiò a ridere quando vide il bambino scrivere parole che in quel contesto erano decisamente inaspettate, come “culo”».
L’edizione 1989 dello Strega ebbe un retroscena in qualche modo sconcertante...
«È vero: si contendevano il premio il Peppo, con “La grande sera”, e Calasso con “Le nozze di Cadmo e Armonia”. Lavoravano entrambi per l’Adelphi ma nessuno aveva informato il Peppo, che partecipava con Mondadori, della partecipazione di Calasso con Adelphi. Peppo ci rimase malissimo, ma in seguito le incomprensioni si appianarono. Inaspettatamente vinse Peppo, con pochissimi voti di scarto».