Corriere della Sera, 17 settembre 2024
La storia del medico che inventò il Morbo di K per salvare ebrei e rifugiati
A volte basta un ripensamento per aiutare una bella storia a nascere. Anzi, per farla tornare alla luce. E, ancor più miracolosamente, talvolta può bastare una menzogna improvvisata per salvare centinaia di vite.
Questa storia non avrebbe avuto un lieto fine senza il medico italiano Giovanni Borromeo che, spalleggiato da frati non meno coraggiosi, fermò 81 anni fa le ispezioni della polizia fascista e di uno squadrone di SS inventandosi la pandemia del devastante Morbo di K. Il rischio di un presunto contagio dissuase i rastrellatori dal procedere e il dottor Borromeo sventò così la cattura degli ebrei e degli antifascisti che si erano nascosti all’Ospedale San Giovanni di Dio, o Fatebenefratelli, sull’Isola Tiberina, a Roma.
E questo libro, probabilmente, non avrebbe avuto inizio senza il contributo dei discendenti di Gina e Betto, lei di famiglia cattolica e benestante, lui ebreo e nullatenente, che s’innamorarono nella primavera del 1943, pochi mesi prima dell’Armistizio e dell’inizio dei rastrellamenti nel ghetto della Capitale.
Le loro vicissitudini erano destinate a restare un segreto della famiglia, emigrata dopo la guerra in Sudamerica. Ma erano indispensabili a Jesús Sánchez Adalid, nato quasi vent’anni dopo nella lontana Estremadura, al confine fra Spagna e Portogallo, per ricostruire uno dei più sorprendenti episodi di solidarietà e generosità avvenuti in Italia nell’autunno del 1943. Quando, infatti, si accese «Una luce nella notte di Roma». Una delle sue notti più buie.
Non c’è nulla di inventato nelle pagine del romanzo (HarperCollins) che Adalid, sacerdote, prolifico autore e ricercatore storico, presenterà con Aldo Cazzullo oggi, proprio nel luogo dove avvennero i fatti principali, il Fatebenefratelli sull’Isola Tiberina.
«Ho cambiato solo i nomi dei due protagonisti, perché questa era una delle clausole dell’accordo che ho dovuto firmare per ottenere i ricordi dei loro nipoti» spiega lo scrittore.
Quindi, se Adalid scrive che in quegli anni a Roma, «in piazza Margana, al pianterreno di una casa di tre piani, c’è la Cantina Senni, gestita dal signor Vittorio Pinto», si può stare certi che ogni dettaglio combacia perfettamente con la realtà. Nessun indizio, in seicento pagine, conduce invece all’identità autentica di Gina e Betto, «Promessi Sposi» e militanti per la libertà in un tempo feroce di bombardamenti, deportazioni, fame e paura. Ma anche di miracoli, come l’apparizione dello sconosciuto Morbo di K, che consigliò il dietrofront ai nazifascisti.
Le avvisaglie del prodigio si manifestarono alla vigilia del Natale del 1943. L’ospedale era stracolmo di pazienti, ma anche di ricercati per motivi politici o razziali, le provviste erano agli sgoccioli, e il vicario, frate Leonardo, era stato costretto a respingere altre richieste di aiuto quando alla porta si presentò un carro colmo di viveri trainato da un grande cavallo marrone. «A guidare la spedizione – sorride Adalid – era la “Sora Lella”, Elena Fabrizi, proprietaria di una trattoria e, soprattutto sorella di Aldo, l’attore teatrale, convinti benefattori dell’ospedale».
Personaggi meno noti e ancor più valorosi hanno attirato però l’attenzione del parroco storico nei suoi due anni di ricerche: «Non avevo particolare voglia di scrivere un racconto ambientato durante la Seconda guerra mondiale – spiega —: è già stato pubblicato tanto, ma poi mi sono appassionato ad alcune figure, come quella indimenticabile di don Desiderio, un eroe decorato dagli americani».
Fondatore dopo la guerra del primo gruppo di scout, don Desiderio convinse il superiore generale dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio, frate Efrén Blandeau, a lasciar entrare una radio militare all’interno dell’ospedale per consentire ai militari nascosti di inviare informazioni agli angloamericani, ormai vicini a Roma, all’inizio del 1944.
«Mi piace la Storia vista da dentro, come è stata vissuta dalle persone comuni. I grandi protagonisti, Mussolini, il re, Hitler, restano sullo sfondo – aggiunge Adalid —. Ho studiato la vita quotidiana a Roma durante l’occupazione nazista, immaginando che tutti se ne stessero chiusi in casa. Invece no. La gente usciva a fare acquisti, andava all’Opera, a teatro».
Tutto ciò non sarebbe bastato forse a inchiodarlo per anni, come uno speleologo, nelle viscere degli archivi italiani, vaticani, israeliani, senza quella email inviatagli cinque anni fa da un provvidenziale suggeritore, fratel Ángel López Martín, che gli proponeva documenti inediti su «un fatto storico avvenuto nel nostro ospedale dell’Isola Tiberina di Roma».
Lettere, articoli, riferimenti, testimonianze si sono accumulate sul tavolo dello scrittore: «È stato per me un viaggio iniziatico dentro una storia atipica – racconta —. Mi piaceva la vicenda della giovane coppia che splende come una luce in frangenti tanto oscuri. Mi ha colpito la personalità di Betto, ebreo intrepido e combattivo. Non poteva cadere nell’oblio».
E una notte di un paio d’anni fa, Adalid ricevette una telefonata dall’America Latina: «Ha ragione padre, questa storia non può andare perduta».