la Repubblica, 16 settembre 2024
Vitaliano Brancati “Quel visionario di mio padre”
Vitaliano Brancati, l’illuminista barocco, morì assurdamente 70 anni fa sotto i ferri di un mago della chirurgia, Achille Mario Dogliotti, per una banale cisti polmonare. Era il 25 settembre 1954 e lo scrittore aveva appena 47 anni. La sua bambina, Antonia, ne aveva solo sette. Da sette decenni sta cercando quel padre.Signora Brancati, alla fine l’ha trovato?«Non lo so, forse sì. Vorrei che il suo buonsenso, così ben teorizzato in alcune memorabili pagine, mi soccorresse in quest’epoca tremenda e mi aiutasse a non mangiarmi il fegato ogni giorno. Come lettrice ho accostato mio padre a poco a poco, forse temevo che ne risultasse l’immagine di uno sconosciuto, forse ne avevo un po’ paura».Che scrittore pensa fosse, Vitaliano Brancati?«Per prima cosa, la sua lingua bellissima e ricchissima. Sembra di sedersi a un banchetto: suoni, movimenti, sapori, colori, odori. Proprio tanto. A volte, persino troppo. Tutto molto siciliano, e neppure una parola sciatta. Ma per gustare a fondo bisogna procedere lentamente. Una scrittura classica e barocca insieme, ricca di sfumature e umorismo, che sa diventare tragedia. Penso alla descrizione di certe notti in cui ci si può innamorare oppure impazzire».Un intellettuale impegnato, come si diceva un tempo.«Gli uomini di cultura firmavano appelli, erano punti di riferimento ascoltati, partecipavano alla vita del paese. Oggi, al massimo, fanno tristi comparsate in tivù».Che ricordo ha di suo padre?«Quando morì, ero molto piccola. Della sua presenza mi arrivava l’importanza. Facevamo passeggiate in via Veneto, invero noiosissime per me, e in tanti lo fermavano e lo circondavano con rispetto. Papà era molto affettivo, era capace di un amore materno. Ai miei occhi faceva un lavoro bellissimo, sempre a casa con la sua penna, la sua scrivania, la sua giacca da camera e una segretaria alla quale dettava ciò che aveva scritto a mano, sul leggio».Le parlava mai di libri?«Grazie a lui sapevo tutto dell’ Odissea, degli dèi greci e dell’assedio di Troia. Da che mi ricordo, ho sempre saputo leggere. Poi, quando papà è morto, mi è mancato il suo stimolo intellettuale e ho perduto molto tempo prima di capire che l’intelligenza è un muscolo, e va allenata».Suo padre fu uno scrittore fascista, però si ravvide presto.«Da ragazzo incontrò tre volte il Duce, ma già dal 1933 cominciò ad avere molti dubbi: si accorse che il fascismo faceva ridere. Così rimise il cielo in alto el’inferno in basso, ma per tutta la vita si fustigò per quella che lui definiva un’ubriachezza di stupidità. Era tormentato dal senso di colpa. “Dormo con un occhio aperto”, diceva, “perché ho paura che il fascismo ricicci”. Aveva ragione: i fascisti invecchiano ma non muoiono, dal momento che non muore il fascismo in noi. Oggi è persino al governo».I classici sono sempre attuali.«Nel suo libro Gli anni perduti,l’assurdo progetto della costruzione della torre a Natàca, cioè Catania, sembra il ponte sullo Stretto, e quel Buscaino chelo teorizza è un Silvio Berlusconi sputato. A proposito della forza visionaria di certe opere».Vitaliano Brancati è celebre per il ritratto del gallismo, per quello sguardo che “inghiottiva intere folle di donne”. Oggi, come se la caverebbe?«Era un siciliano geloso, non solo ironico e intelligentissimo. Trasferì le sue pulsioni su Paolo il caldo. Lo schema classico: la moglie è una santa, la figlia ancora di più, la mamma non ne parliamo, e delle altre donne si va a caccia. Con curiosità, mi domando: se lui avesse avuto a che fare con me nella mia adolescenza, che padre sarebbe stato? Lo avrei reso più educato? Avrei dovuto rompere con lui?».Sua madre, l’attrice Anna Proclemer, infatti se ne andò.«Si sentiva in colpa perché recitava, mentre lui la voleva a casa. Non potevano più restare insieme. La donna angelicata scese dal piedistallo e la capisco. Papà continuò a esserne innamorato, lei gli volle sempre molto bene e lo accompagnò a Torino per quel fatale intervento chirurgico».Cosa le hanno raccontato di quella morte prematura?«Il professor Dogliotti era il più famoso chirurgo d’Italia. Quando mio padre, un salutista, uno che mangiava pesce lesso e brodino e non beveva neanche un goccio d’alcol, venne ricoverato, il professore gli diceva: Brancati, lei è il malato più sano della nostra clinica! Doveva asportargli una cisti polmonare che papà aveva sin dalla nascita. Un suo cugino, chirurgo catanese, sosteneva che quella cisti andasse svuotata poco alla volta, così mi ha spiegato il figlio una decina di anni fa. Invece a Torino sbagliarono, la vollero togliere tutta insieme e lo ammazzarono. Un altro grande rimpianto: l’Italia che mio padre avrebbe raccontato, quella del boom, un ritratto che purtroppo ci manca».La morte fa spesso capolino nei romanzi di Brancati. Qual è il suo preferito?«Il Bell’Antonio è un libro perfetto, contiene una serie infinita di livelli di lettura, dalla storiella al dramma. Lì dentro c’è la Storia, c’è tutto. Ma come si fa a non nominare Don Giovanni in SiciliaoPaolo il caldo? Come lettrice, vado a momenti e riprendo in mano questi libri secondo necessità. Dipende da ciò di cui ho bisogno. E rileggo sempre, con infinito piacere, I piaceri».Dicevamo della morte come tema narrativo.«In Paolo il caldo c’è una famosa pagina in cui papà definisce luttuosa la luce siciliana, così intensa e bianca da provocare sgomento e scolorare nel buio. Vitaliano Brancati lottava contro l’angelo dell’indicibile. Era un formidabile scrittore di segni, quelli che a teatro chiamiamo toni. Un mago del controcanto e del sottotesto. Bisogna leggere i passi del matrimonio di Antonio per capirlo».Il cinema ha restituito correttamente suo padre?«Forse vanno considerate soltanto le sceneggiature scritte di suo pugno: Rossellini lo giudicava il migliore. Nonostante Mastroianni e Claudia Cardinale, alcuni film hanno un po’ volgarizzato lo sguardo di Brancati».Sua madre le parlò molto di lui?«Negli ultimi anni della vita le mancava moltissimo. Mamma volle fare ditta intellettuale, come Simone de Beauvoir con Sartre, come la stessa Proclemer con Albertazzi. Ma lei era molto giovane e voleva essere libera, aveva bisogno di esperienza».In questi settant’anni, cosa le è mancato di più di suo padre?«Mi spediva cartoline, ad esempio con i disegni di Leonardo da Vinci. “Questi li ha fatti un grandissimo pittore”, mi scriveva in stampatello. A mia madre inviava lettere bellissime. Che rabbia non avere quelle che avrebbe scritto a me».