Corriere della Sera, 16 settembre 2024
Francesco De Gregori presenta il suo nuovo show nei teatri
Figlie di un do minore? Può darsi. Ma non per questo destinate a subire l’onta dell’oblio. E comunque chi le ha create non permetterebbe mai che abbiano meno dignità delle «sorelle» più fortunate. E infatti ha deciso di renderle omaggio lasciando che siano loro le protagoniste di insoliti show. Concerti per soli 200 spettatori a sera, che Francesco De Gregori ha battezzato «Nevergreen (Perfette sconosciute)», ovvero canzoni raramente proposte dal vivo. L’appuntamento è al teatro Out Off di Milano, a partire dal 29 ottobre. Scaletta diversa ogni sera (si va avanti fino al 23 novembre) e non mancheranno ospiti a sorpresa, colleghi e amici che condivideranno con De Gregori il piacere di far scoprire (o riscoprire) al pubblico brani che perlopiù sono rimasti all’ombra dei successi senza tempo.
La dimensione giusta per trasmettere quello che le sta più a cuore quando è sul palco: offrire alla platea la circolarità del suo repertorio, dalle hit ai pezzi meno famosi.
«Esatto, perché mi piace l’idea che la mia carriera non debba essere per forza riassunta da quelle dieci o quindici canzoni che la gente ha conservato nella memoria e che magari ha passato alla generazione successiva. D’altronde sono convinto di aver scritto altri brani che meritano altrettanta attenzione: semplicemente sono meno conosciuti perché le radio non li hanno mai passati. Già in assoluto la mia musica circolava poco in modulazione di frequenza, figuriamoci poi se trasmettevano L’uccisione di Babbo Natale! E Milano sarà proprio l’occasione per ripescare quelle canzoni perfettamente sconosciute. Ma sia ben chiaro, non ho nessuna intenzione di punire Generale o Rimmel, e nemmeno Buonanotte fiorellino. Ci saranno anche quelle, ma non più di quattro o cinque».
In sintesi avrà mano libera.
«Soprattutto non mi sentirò obbligato a fare tutte le sere La donna cannone. Penso che la platea, se avvertita prima di quello che succederà, possa anche apprezzare che manchi un evergreen. Poi mi piace l’idea di tornare a suonare in un posto molto piccolo, davanti a poche persone, come all’inizio della mia avventura musicale. E questo renderà lo spettacolo più intimo, più casareccio, più domestico».
Facciamo un salto nel 1974 quando incise «Niente da capire» e «Bene»...
«Le scrissi a Ponza in un paio d’ore, seduto al tavolino di un bar».
In men che non si dica tirò fuori due brani intramontabili del suo repertorio. Invece per pubblicare il recente «Giusto o sbagliato» sono passati 12 anni dall’ultimo inedito: è la spregiudicatezza letteraria della gioventù che rende più facile la scrittura?
«No, no: è solo ed esclusivamente la gioventù. Io scrivevo con una facilità e con una velocità impressionanti. Se ripenso a com’ero allora come autore mi spavento, scrivevo cose oggettivamente belle, o se non altro ispiratissime, con una rapidità che oggi mi sogno di avere. Quando rileggo certi testi mi dico: ma come facevo? Sì, è vero, la spregiudicatezza aiuta, ma credo che sia un processo legato all’età: più si cresce e più si diventa selettivi e meno creativi. È inevitabilmente così. Non c’è niente di male, l’importante è saperlo e anche confessarlo senza tanti problemi, soprattutto evitare di fare la copia di sé stessi pur di pubblicare qualcosa a tutti i costi. A me affascina l’idea di andare in sala di registrazione per fare un disco, di maneggiare la musica. Però mi manca la materia prima, per ora. Non mi sforzo nemmeno di comporre, semplicemente non ci provo nemmeno. Però, tanto per essere chiari (sorride), non è che ho impiegato 12 anni per scrivere Giusto o sbagliato».
Enel e Fiat hanno scelto «La storia» e «Viva l’Italia» per i loro rispettivi spot pubblicitari: come avrebbe reagito se il permesso di utilizzare queste sue canzoni glielo avessero chiesto anni fa?
«Forse avrei rifiutato, ma per motivi che oggi non condivido più. C’era forse a quei tempi, da parte mia, una certa ritrosia nel concedere un pezzo alla pubblicità. Ma avrei sbagliato, sarebbe stato un atteggiamento un po’ talebano nei confronti di me stesso».
Che sentimento le suscita l’intelligenza artificiale?
«Ne so poco. Personalmente non so se dovrò mai fare i conti con l’intelligenza artificiale, probabilmente tutti noi già li stiamo facendo, così come per il computer o per il cellulare. Comunque, sono arrivato a un’età per cui le cose mi fanno meno paura di quando avevo 40 anni, nel senso che il futuro (facciamo gli scongiuri) per forza di cose lo vedo, non voglio dire limitato, però… Sarà un problema che riguarderà più i miei figli e i miei nipoti. Tuttavia, se diventasse un pericolo saprei salvaguardarmi, come mi sto proteggendo dai social, da tante cose della modernità con cui non riesco a scendere a patti. Quindi me ne sto fuori, ma rimango pur sempre un uomo del mio tempo».
Disorientiamo i suoi fan con la quotidianità del Principe. Che se ne sta sul divano, guarda la televisione e fa zapping: cosa attira la sua attenzione e cosa gli fa cambiare immediatamente canale?
«Amo le partite di calcio, i vecchi film e seguo i notiziari. Assolutamente fuggo dai talk show. Che altro rimane? Poca roba. Per me la tv è uno strumento per andare al cinema stando a casa. Un nido che mi sta bene addosso, dove torno sempre volentieri dopo mesi di tournée, dove ritrovo gli odori della mia cucina, dove dormo bene perché il materasso ha la mia forma: nessun albergo può competere con il letto di casa tua».
Per lei esprimere un dolore è ancora un atto di positività?
«Certo. Parlare di una sofferenza vuol dire averla elaborata, perché quando il malessere è ancora presente non riesco a farlo. Alcune mie canzoni raccontano di relazioni amorose finite, interrotte, Rimmel soprattutto. Ecco, non l’avrei mai potuta comporre nel pieno di quella tempesta in cui mi stavo lasciando, stavo per essere lasciato. Dopo un po’ di tempo l’ho scritta, perché avevo metabolizzato tutto l’affare. Il dolore, la sofferenza, il patimento sono sicuramente carburante di un certo tipo di creatività, però non a botta calda. Quando stai soffrendo non ti va tanto di metterti a suonare il pianoforte».
Nick Cave, dopo la tragedia della morte del figlio, in «Anthrocene» canta: «Tutte le cose che amiamo le perdiamo».
«Conosco questa storia…».
Nel nuovo album di Cave invece c’è un pezzo dal titolo «Joy» in cui parla di un «ragazzo fiammeggiante» che gli sussurra: «Abbiamo avuto tutti troppo dolore, ora è il momento della gioia». Dopo la scomparsa di sua moglie Chicca, pensa che anche per lei possa arrivare quel momento?
«Per adesso lo escludo. Mia moglie è stata una presenza continua per 50 anni. Siamo stati padre e madre, sorella e fratello, madre e figlio, amanti, sposi, quindi si può ben capire quanto possa essere grande per me il senso di perdita. Il nostro era un rapporto sostanziale, spirituale, intellettuale, fisico. Sennò non saremmo durati mezzo secolo insieme. Oggi come oggi la sento comunque presente nella mia vita. È presente nel ricordo, è presente in tutto quello che abbiamo fatto insieme e questo ricordarla mi aiuta a superare la parte lancinante del dolore».