Corriere della Sera, 16 settembre 2024
La vera storia della tratta degli schiavi
L’Atlantico come «oggetto storico a sé stante» è una costruzione relativamente recente, scrive Éric Schnakenbourg in Il mondo atlantico. Una storia globale (XV-XVIII secolo) in uscita il prossimo 4 ottobre per il Mulino nella traduzione di Andrea De Ritis. In effetti l’idea di una civiltà atlantica è apparsa nel Novecento e si è successivamente sviluppata in modo più ampio nel quadro della guerra fredda. Laddove è stata proposta come una civiltà da presentare come alternativa a quella sovietica. La storia atlantica ha poi conosciuto un rinnovato interesse a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, scrive Éric Schnakenbourg. Arrivata dagli Stati Uniti, dove rispondeva a una forte domanda per conoscere le lontane origini di quell’entità che era uscita vincitrice dalla guerra fredda, questa storia «ha avuto una larga diffusione che è andata ben oltre il mondo accademico». E ha portato i principali editori anglosassoni a pubblicare diversi libri che avevano come oggetto questa complessa vicenda. Nonostante sia trascorso relativamente poco tempo dalla loro pubblicazione ce ne sono alcuni che vengono già considerati alla stregua di classici: la Storia dell’Atlantico di Bernard Bailyn (Bollati Boringhieri), il libro di Anthony Pagden Signori del mondo. Ideologia dell’impero in Spagna, Gran Bretagna e Francia 1500-1800 (il Mulino), quello di John Elliott Imperi dell’Atlantico. America britannica e America spagnola 1492-1830 (Einaudi) e quello di un autore francese, Pierre Chaunu, La conquista e l’esplorazione dei nuovi mondi (XVI secolo)(Mursia).
La storia di questo mondo però non è solo quella dell’incontro/scontro tra Europa e Stati Uniti. Fondamentale per comprendere la «storia atlantica» è aver presente l’interconnessione tra Europa e America del Nord sì, ma anche quelle con l’Africa e l’America del Sud.
Nel 1528, lo scrittore spagnolo Hernan Pérez de Oliva affermava che i viaggi di Colombo erano serviti a «unificare il mondo e a dare a queste strane contrade la stessa forma del nostro». Ma le cose stavano davvero così? In realtà nell’insieme del mondo atlantico gli europei erano meno numerosi di quel che si immagina: intorno al 1760 in Africa erano solo ventiseimila di cui la metà nella colonia di Città del Capo; nello stesso periodo sull’intero continente americano, gli europei erano meno di cinque milioni. Fra l’inizio del Cinquecento e la fine del Settecento emigrarono in America poco più di due milioni di persone. Negli stessi secoli furono deportati in America 8,6 milioni di africani, tanto che uno storico americano della tratta degli schiavi, David Eltis, ha scritto che sotto il profilo migratorio «l’America fu più un’estensione dell’Africa che dell’Europa». E a considerazioni analoghe sono giunti altri studiosi del fenomeno come John Thornton in L’Africa e gli africani nella formazione del mondo atlantico 1400-1800 (il Mulino), Olivier Pétré Grenouilleau in La tratta degli schiavi. Saggio di storia globale (il Mulino), Herbert Klein in Il commercio atlantico degli schiavi (Carocci) e Paul Lovejoy in Storia della schiavitù in Africa (Bompiani).
La storia del mondo atlantico, scrive Schnakenbourg, non è dunque un’aggregazione di storie nazionali e regionali, e neppure una storia imperiale ben definita. Al contrario «è trasversale e interattiva». Quanto al giorno in cui Cristoforo Colombo mise piede in America, 12 ottobre 1492, secondo Schnakenbourg, quella data non ha un reale significato e «introduce anzi una distorsione che porta a privilegiare un approccio euro-americano all’Atlantico». Assai più importante è tener d’occhio l’epicentro africano. Quando Colombo arrivò alle Bahamas, Bartolomeo Diaz aveva già superato il Capo di Buona Speranza da quasi quattro anni e aveva dunque aperto la via per aggirare l’Africa. I portoghesi avevano costruito insediamenti commerciali sulla costa africana, creato piantagioni di canna da zucchero dove lavoravano schiavi e «avviato contatti tra popolazioni che generavano incroci etnici e la creolizzazione». Di conseguenza, sempre secondo Schnakenbourg, «la comprensione della formazione del mondo atlantico deve necessariamente passare prima per la considerazione dell’apertura della sua parte orientale». Apertura che cominciò con la progressione portoghese lungo le coste africane a partire dagli anni Venti del Quattrocento.
Qui si impone un tema: perché gli europei non si applicarono all’Africa per tradurre in realtà il «sogno» che avrebbero invece realizzato in America? Perché non provarono a costruire lì, in un’area geografica gigantesca e più prossima, il «mondo nuovo» che avrebbero edificato dall’altra parte dell’Atlantico? L’economista Malachy Postlethwayt nel 1745 osservava che la base della potenza navale e commerciale dell’impero britannico era l’Africa. In più l’Africa presentava condizioni naturali favorevoli allo sviluppo dell’economia di piantagione, la manodopera servile non era lontana e l’Europa più vicina, più facile da raggiungere. Bastava attraversare il Mediterraneo. O navigare l’Atlantico lungo le coste africane. Tutti elementi che avrebbero reso lo zucchero e altri prodotti «meno cari da produrre». Perché non dedicare all’Africa tutte le nostre energie?
La risposta di Schnakenbourg a questa domanda mette in risalto la «forza» e la «resistenza» dell’Africa. Cioè, «la capacità globale degli Stati africani della zona intertropicale a opporsi in modo efficace agli stranieri che volevano impadronirsi delle loro terre». Questa facoltà di resistenza era inoltre resa più forte dall’alto tasso di mortalità che colpiva gli europei una volta che avevano deciso di restare sul posto («da cinque a sei individui su dieci morivano durante il loro primo anno di soggiorno in Africa»). Invece, in America, le condizioni erano molto più favorevoli: lì gli amerindi furono rapidamente e considerevolmente indeboliti (talvolta sterminati) dal contatto con gli europei. Lo shock epidemiologico, «fattore fondamentale della storia e prodotto del caso biologico», è stato un fattore «decisivo nella colonizzazione europea dell’America». E quindi «nell’organizzazione del mondo atlantico dell’epoca moderna».
Ma poi il nuovo continente fu «ben lontano da quell’Eden vantato da Colombo». Lo spazio americano presentò condizioni naturali spesso ostili, la cui violenza disorientava i coloni. Anche se fra il Quattrocento e il Settecento, non vi furono grandi eruzioni vulcaniche nell’arco antillano, le regioni intertropicali americane tra luglio e novembre erano regolarmente soggette a cicloni. E gli europei, nonostante fossero abituati alle tempeste, ignoravano del tutto la potenza dei cicloni che per decenni apparvero come eventi di portata sovrannaturale. L’oscuramento del cielo e le piogge torrenziali che annunciavano venti violentissimi erano relativamente frequenti. La sola Cuba subì, tra il 1524 e il 1644, una quindicina di cicloni devastanti. Quello del 1591 provocò la distruzione di quasi un’intera flotta e la morte di cinquecento marinai. Le Piccole Antille, racconta sempre Schnakenbourg, erano inoltre spesso scosse da terremoti. Uno dei più potenti devastò nel 1727 la Martinica e provocò distruzioni impressionanti. Le cui conseguenze si fecero sentire sul lungo periodo. Poi, certo, la coltivazione della canna da zucchero a poco a poco riprese, ma la produzione di cacao venne praticamente distrutta. Fu anche a seguito di questo genere di «accoglienza» che i nuovi venuti furono indotti a spingersi sempre più all’interno del continente.
Ed è in conseguenza di ciò che la storia atlantica può essere compresa solo in un contesto che prescinda o comunque vada molto oltre quel viaggio iniziale dalle coste europee all’America del Nord. Di più: anche a centinaia di chilometri dal mare gli scambi atlantici potevano essere «un forte stimolo per gli amerindi occidentali dei Grandi Laghi che cacciavano i castori», o «una maledizione per l’africano catturato nel centro delle regioni continentali», così come «per l’indigeno delle Ande vittima del vaiolo». Ma allo storico appare molto probabile che il mercante di Boston, lo scaricatore di Nantes, lo schiavo della Giamaica, l’amerindo delle miniere d’argento del Messico o Dom Miguel de Castro avrebbero accolto con molta diffidenza l’idea di appartenere allo stesso mondo.
Ancora più lontano si intravedeva il tessitore indiano le cui stoffe di cotone servivano per la tratta in Africa. O l’orafo cinese che lavorava l’argento americano. E all’elenco si può aggiungere il semplice consumatore dello zucchero proveniente dalle Antille. Si può in tal modo vedere, secondo lo studioso, «che a poco a poco il mondo atlantico di estendeva, attraverso interstizi e in modo graduale, ben oltre le coste e interessava molti individui che ne avevano più o meno consapevolezza». Anzi, non l’avevano affatto.
Nel 1760 Bernardin de Saint-Pierre si domandava: «Non so se il caffè e lo zucchero sono necessari alla felicità dell’Europa, ma so con certezza che questi due prodotti vegetali hanno provocato la sventura di due parti del mondo». Perché? «Abbiamo spopolato l’America per avere una terra su cui piantarli, spopoliamo l’Africa per avere una nazione per coltivarli». L’arrivo degli europei in America, nota Schnakenbourg, si basò sull’esperienza africana dove lo sfruttamento intensivo delle terre attraverso una manodopera servile permetteva già di rispondere alla domanda europea. Il modello attraversò l’oceano per svilupparsi sulla costa del nuovo continente. L’oro dell’Africa e poi dell’America, così come l’argento, non era (o lo era in minima parte) estratto per soddisfare le necessità locali. Una delle caratteristiche del mondo atlantico è che, dal Brasile alla baia di Chesapeake, lo zucchero, il tabacco, l’indaco, il cotone non erano, o erano solo marginalmente, consumati là dove venivano prodotti. Una delle peculiarità del mondo atlantico è proprio l’intensità delle connessioni tra il luogo di consumo e i luoghi di produzione. La combinazione della distanza e dei volumi, prosegue Schnakenbourg, generò una configurazione inedita, la cui traduzione più emblematica fu il modello della piantagione.
Questa struttura economica, sociale e politica concentrava in un solo luogo la manodopera africana, il suolo e il clima dell’America, colture provenienti dall’Asia a cui si aggiungevano tecnologia, capitali e animali dell’Europa. Luogo di trasformazione dell’ambiente attraverso le colture e l’allevamento, nonché degli individui attraverso la segregazione, lo sfruttamento e la violenza, «la piantagione era anche uno spazio di ibridazione». E costituiva «un mondo a sé stante». Fu un’innovazione decisiva che animò i mercati atlantici, perché non solo produceva ma trasformava. E trasformava per il trasporto. Senza equivalenti in termini di mobilitazione umana e di capitali, la piantagione fu da un lato la risposta alla domanda europea che alimentava, dall’altro significò «l’appropriazione delle terre americane attraverso una forza lavoro sempre più numerosa».
L’Europa pensò per un lungo tempo di essere la padrona di questo gigantesco cambiamento. Ma che le cose non stessero proprio così, lo notò già Montesquieu il quale, nello Spirito delle leggi (1748), osservò: «Le Indie e la Spagna sono due potenze sotto uno stesso padrone; ma le Indie costituiscono la parte principale e la Spagna quella secondaria». Poi, aggiunse, «invano la politica tenta di ricondurre il principale al secondario... Le Indie attirano sempre la Spagna verso di loro».
Va infine notato che tutte le potenze europee cominciarono con l’affidare la fondazione e la fase iniziale dello sfruttamento dei loro possedimenti d’oltremare a soggetti e compagnie private. Fu solo in un secondo momento, dopo un lungo periodo di «delega», che questi territori passarono sotto il controllo dello Stato. Questo dimostra che «la volontà di creare un impero è stato un obiettivo secondario». Per il fatto che è apparso solo in un secondo momento, con la necessità di pensare a «uno statuto particolare per territori particolari». Il modello coloniale fu elaborato progressivamente «non a partire da uno schema definito in anticipo e direttamente applicato». Il che proverebbe che lo studio della storia del mondo atlantico come una storia di colonialismo e di emancipazione da esso è tutta da rivedere. Dal momento che ci induce a prendere in considerazione solo una parte limitata del mezzo millennio che abbiamo alle spalle. E a disinteressarci dell’altra metà della storia. Rimasta fin qui inesplorata.