Corriere della Sera, 16 settembre 2024
Nel processo Open Arms Salvini la politica c’entra (per via dei 5 Stelle)
Il processo Salvini-Open Arms non è un processo politico, ma è un processo di derivazione politica. A consentirne la celebrazione, infatti, è stato il Senato della Repubblica quando nel 2020 concesse l’autorizzazione a procedere ribaltando la decisione dell’apposita Giunta: finì 149 a 141, con il voto favorevole e decisivo dei Cinque Stelle.
I quali a marzo 2019, quando ancora governavano con la Lega, si schierarono invece contro il processo all’allora ministro dell’Interno ugualmente accusato di sequestro di persona per aver trattenuto 150 migranti a bordo della nave italiana Diciotti, e per il quale un altro tribunale per i reati ministeriali aveva chiesto l’autorizzazione.
In quell’occasione i grillini affidarono la decisione al voto degli iscritti alla loro piattaforma telematica, ponendo un quesito che nei tribunali si chiamerebbe «domanda suggestiva», perché implicitamente suggeriva la risposta: «Il ritardo dello sbarco della nave Diciotti, per redistribuire i migranti nei vari Paesi europei, è avvenuto per la tutela di un interesse dello Stato?». Il 60 per cento disse sì, seguendo le indicazioni della classe dirigente del Movimento, e il processo fu negato. L’anno successivo, a maggioranza giallo-verde andata in fumo, i Cinque Stelle cambiarono opinione, e mandarono il loro ex alleato alla sbarra. Decisione politica, senza dubbio.
Dopodiché le carte sono tornate sul tavolo della Procura di Palermo, e la procedura ha seguito il suo corso secondo le regole dei codici penale e di procedura penale, come per tutti gli imputati. Senza più valutazioni politiche, bensì esclusivamente giuridiche. Sebbene di politica si sia parlato e molto, durante il dibattimento e nella requisitoria con cui i pubblici ministeri hanno chiesto la condanna. Ma è accaduto perché politica è stata la difesa del ministro, il quale ha sempre sostenuto di avere agito per seguire la linea concordata dalla maggioranza di governo, nel cui «contratto» c’era il contrasto all’immigrazione clandestina da perseguire con il coinvolgimento dell’Europa nell’accoglienza dei migranti giunti in Italia. Obiettivo da raggiungere con la strategia dei «porti chiusi» e il principio «prima la redistribuzione e poi lo sbarco».
Ne hanno discusso testimoni, avvocati e pm i quali, al momento di concludere, hanno ribadito che secondo le regole del diritto né «tavoli tecnici» né direttive governative «possono prevalere sulla legge del mare che non distingue il tipo di nave che procede al soccorso; prevede l’obbligo della “dovuta diligenza” gravante sia sullo Stato che su tutti i comandanti delle imbarcazioni; non ammette la chiusura dei porti in occasione di eventi di salvataggio; non arretra sulla competenza dello Stato nelle cui acque territoriali si sia verificato un evento di recupero naufraghi; sancisce a chiare note il principio di non respingimento oltre a quello della tutela rafforzata per i minori migranti». E sulla Open Arms ce n’erano alcune decine.
Inoltre nella fase del sequestro di persona a lui contestato Salvini perseguì in solitudine quella linea politica, senza più l’appoggio degli altri ministri né dell’allora premier Giuseppe Conte; soprattutto dopo che il Tar aveva sospeso il divieto d’ingresso della nave in acque italiane. Tutto questo è stato ricordato dai pm non per sostenere una linea politica inversa, ma per dimostrare il cosiddetto «elemento soggettivo» del reato, cioè la consapevolezza dell’imputato di agire contro le regole, per un fine da lui stesso dichiarato.
Di questo s’è trattato: valutazioni giuridiche che toccano – inevitabilmente, quando sotto processo è un ministro – questioni politiche. E tecnico-giuridici sono stati i calcoli che hanno portato alla richiesta di sei anni di reclusione. Raggiunta partendo dal minimo della pena previsto dal codice penale (tre anni) con l’aumento dovuto alla continuazione del reato (un sequestro per ogni migrante, valutato anch’esso al minimo previsto dalla legge) e dell’altro contestato: i rifiuti di atto d’ufficio reiterati per ogni richiesta di sbarco negata. E senza poter concedere, a parere della procura, le attenuanti generiche giacché nel certificato penale di Matteo Salvini c’è una condanna definitiva per diffamazione aggravata dall’odio razziale (commessa nel 2009 e sancita nel 2014) inflitta con un decreto penale che ha sospeso la pena.
Considerazioni sulle quali, dopo l’arringa della difesa che ovviamente la vede all’opposto dei pm, deciderà il tribunale, secondo le interpretazioni che darà delle stesse leggi e regole. Non opinioni politiche.
La premier Giorgia Meloni ha definito «incredibile» la richiesta di condanna per il suo vice; e il ministro dell’Interno Piantedosi, che durante l’inchiesta è stato indagato e poi archiviato in qualità di capo di Gabinetto di Salvini al Viminale, «una macroscopica stortura e un’ingiustizia». Commessa dalla stessa Procura che, per citare un precedente ancora recente e attuale, coordinò le indagini per la cattura di Matteo Messina Denaro; quel giorno la presidente del Consiglio si precipitò a Palermo per congratularsi con il procuratore in persona.