Corriere della Sera, 16 settembre 2024
Mario Calabresi presenta il suo nuovo libro (e racconta qualcosa della sua vita)
Mario Calabresi, perché ha intitolato il suo nuovo libro «Il tempo del bosco?».
«Cercavo un luogo in Italia dove il tempo fosse fermo. Mi hanno indicato Sasso Fratino: una riserva integrale, per entrarci ci vuole il permesso dei carabinieri».
Dov’è Sasso Fratino?
«Nelle foreste casentinesi, sul crinale tra Romagna e Toscana. È la zona dell’eremo di Camaldoli, dove ho passato qualche notte con i dodici monaci. Ed è il bosco più integro d’Italia: ci sono alberi di 5, 600 anni, erano già lì quando Colombo scoprì l’America, altri servirono a reggere la cupola di Brunelleschi. È un luogo dal tempo dilatato: vi passò Dante durante l’esilio, vi passava la linea gotica. E non prende il cellulare».
Nel bosco cos’ha scoperto?
«Mi hanno parlato di Fabio Clauser, il decano dei forestali italiani, che nel 1959 ebbe l’incarico di disboscare la zona, e invece la salvò. Mi hanno chiesto: perché non lo intervista?».
È ancora vivo?
«Ha 105 anni. Gli ho scritto una mail; mi ha risposto dopo due ore. Mi ha anche consigliato un agriturismo in zona, specialità tagliatelle al ragù toscano e passatelli romagnoli in brodo. Gli ho chiesto cosa ordinasse lui di solito. Mi ha risposto: “Tutte e due, perché alla mia età non so se ci sarà una prossima volta”».
Il suo libro è una riflessione sul tempo.
«Alessandro D’Avenia ha letto le bozze e mi ha detto: “Dovremmo riscoprire gli antichi greci. Noi abbiamo l’idea della carriera, che è un fatto personale; i greci avevano il senso del destino”. In effetti, noi lasciamo che il nostro tempo venga misurato dagli altri. Lo frammentiamo. Lo gettiamo via. Nel mio telefonino ci sono 47.500 foto; è come non averne nessuna. Quando un tecnico dell’aria condizionata mi rubò il computer dal mio ufficio di direttore della Stampa, persi tutte le immagini delle mie figlie quando erano piccole. Mi disperai. L’unica cosa rimasta era un piccolo album che avevo fatto per le nonne, quando Emma e Irene avevano compiuto due anni: una ventina di foto in tutto. Ma quelle foto le mie figlie ora le sanno a memoria. La loro scarsità le ha rese preziose. Alla fine dovrei ringraziare l’uomo dell’aria condizionata».
Lei cita un altro scrittore, Paolo Giordano.
«Amo i suoi reportage. Di solito va sui posti quando l’urgenza è passata. È sbagliato schierarsi ogni volta, giudicare dopo pochi secondi. Dobbiamo lasciar depositare le cose, far sì che acquistino un senso. La vita non sono i cento metri; è una maratona. Abbiamo troppo presente. Il presente è troppo grande. Troppe notizie, troppi stimoli. Per questo mi sono messo a fare i podcast con Chora».
Nel libro si parla anche dell’ansia.
«E dell’arte di trasformarla in passione. Ho intervistato un promettente calciatore della Roma, Ebrima Darboe, ora in prestito al Frosinone. È arrivato in Italia dal Gambia su un gommone con altri 130 migranti, stipati a suon di frustate, dopo un’odissea di botte, paura, sfruttamento. Gli ho chiesto se provasse mai ansia. Non conosceva il significato della parola».
Nel libro scrive che se c’è qualcosa che non sopporta è l’ingratitudine. L’ha sperimentata, quando ha diretto due grandi quotidiani?
«Appena arrivato alla Stampa feci dieci promozioni: uno diventava caporedattore, due capiservizio, tre inviati... Al capo del sindacato interno, Giampiero Paviolo, bravo giornalista che purtroppo non c’è più, dissi: ora la redazione sarà contenta. Mi rispose: “Mario, ti sbagli. Hai creato dieci ingrati e duecento scontenti”».
Detta così, pare che la direzione della Stampa sia stata un incubo.
«Al contrario, fu un periodo bellissimo, e non solo perché lasciai il giornale in attivo. La Stampa si dirige stando sul territorio. Ogni settimana andavo in una redazione diversa. Una domenica a Cuneo, una ad Asti, poi magari a Bra o a Canelli... I lettori erano contenti di vedermi».
E la direzione di Repubblica come la ricorda?
«Un’avventura faticosissima. Era finita un’epoca, veniva meno un’idea d’Italia. Fu come nuotare in acque tempestose, tra due forze contrapposte: la nostalgia per lo spirito di Repubblica, per un mondo che vedeva assottigliarsi i suoi riferimenti culturali, e la richiesta di una modernizzazione non facile».
Al governo c’era Renzi.
«Se ci fosse stato il “nemico”, o Berlusconi o la Meloni, sarebbe stato tutto più semplice».
Berlusconi raccontò proprio a lei, quando era cronista, la sua malattia.
«Ne aveva parlato durante una visita a una comunità di recupero. Venni a saperlo. Telefonai a Gianni Letta, per avvisarlo che avrei scritto comunque; tanto valeva che Berlusconi mi parlasse. Berlusconi chiamò e mi disse tutto, a una sola condizione: non mettere la parola cancro nel titolo».
E lei?
«Andai dal mio direttore, Ezio Mauro, che mi rassicurò. Il giorno dopo la parola nel titolo era tumore. In prima pagina».
E Berlusconi?
«All’inizio se la prese: “Ora a Montecitorio la gente mi guarda come si guardano i denti ai cavalli”. Ma un mese dopo mi ringraziò: “Quell’intervista mi ha umanizzato. Ora mi guardano come una persona, non solo come Berlusconi”».
Lei ha alle spalle una storia durissima. Le hanno ammazzato il padre che aveva due anni. Avrebbe potuto crescere rancoroso, arrabbiato, livido. Invece, in venticinque anni che la conosco, non l’ho mai vista di cattivo umore. Come mai?
«Un po’ per gli insegnamenti di mia madre Gemma. Un po’ perché ho avuto uno straordinario secondo padre, Tonino Milite».
Chi era?
«Pittore, è sua la bandiera della pace, e poeta. Un giorno andò in un bar sotto il suo studio, dove non si era mai parlato d’altro che di calcio, e chiese se poteva appendere al muro una sua poesia. Lo guardarono come un matto, io ero imbarazzatissimo, l’ho pure rimproverato. Divenne un rito: ogni settimana entrava nel bar, e sopra il tavolo su cui erano appoggiati Gazzetta e Corriere appendeva una poesia, dopo averla declamata ad alta voce. Qualche mese dopo la sua morte sono tornato là. Il barista mi ha detto: “Non sa quanto ci manca il maestro! Tutti venivano a leggere e a commentare le sue poesie, anche quelli che non ne avevano mai letta una in vita loro”. Ho cercato di trattenere la commozione, ma non ci sono riuscito».
Sua madre quando restò vedova aveva già due figli, lei e Paolo, ed era incinta di un altro suo fratello, che poi fu chiamato Luigi, come il papà.
«Per amore, Tonino si fece carico di crescere tre bambini non suoi. Ogni mattina, quando veniva a svegliarci, si inventava una storia divertente: stava nevicando in primavera, stava passando un elefante, erano fioriti i ciliegi a dicembre... Noi ridevamo, e fingevamo di crederci. Fino a quando, una mattina, non nevicò davvero, in primavera».
Sua mamma ebbe da Tonino un quarto figlio, Uber. Se il mio cognome non mi vietasse i giochi di parole, mi verrebbe da chiederle come faccia a chiamare un taxi...
«È un nome che viene dal latino! Ubertoso, florido, fecondo...».
Nel libro lei racconta l’amore di suo fratello Paolo per il ciclismo.
«Andammo a vedere E.T. di Spielberg. La scena finale, il volo dei bambini in bicicletta, fu la svolta della sua vita. Doveva diventare architetto; lasciò l’università a cinque esami dalla laurea, per andare a montare manubri in una fabbrica di bici. Ora è direttore marketing di una grande azienda dello sport, segue il Giro e il Tour».
E ha fatto una gara estrema in Andalusia.
«Si chiama Badlands: 750 chilometri di sterrato attraverso i due ultimi deserti d’Europa. Paolo era il più vecchio dei 260 concorrenti. L’unico momento di panico l’ha vissuto quando si è scaricato il cellulare con il navigatore; ma superarlo è stato anche il momento più bello».
Nel libro si cita un maratoneta: «Se tu cerchi di respingere il momento del dunque, che è la crisi, non arriverai in fondo; se invece quando arriva il crollo lo accogli, lo accetti e ti convinci che fa parte del percorso, allora raggiungerai il traguardo».
«Ognuno di noi ha la sua “mattina dopo”. Ma è proprio negli imprevisti, nelle delusioni, nelle ripartenze che si nasconde la grazia. Se non si fanno atti di fiducia e piccole scommesse, allora la vita si riduce a quel che si è programmato; e si finisce per giocare in difesa. E comunque nostra madre non se n’è mai fatta una ragione. Ancora oggi ogni tanto ci guarda di traverso e, alzando il dito, dice: vergognatevi di non esservi laureati!».
Lei non è laureato?
«Ho passato mesi a Boston a preparare la tesi alla Kennedy Library, sul dibattito interno all’amministrazione Usa sul centrosinistra italiano. Ma quella tesi non l’ho mai finita, perché poi andai a Roma all’Ansa, e il lavoro mi assorbì del tutto. Mi è rimasto il cruccio. Per anni, la notte ho sognato che nemmeno la maturità era valida, e dovevo ancora fare la versione di greco...».