Corriere della Sera, 16 settembre 2024
Pronto Soccorso, cosa non funziona
Il Pronto Soccorso è la sintesi più estrema di tutto quello che non funziona nel nostro sistema sanitario. Per chi ci arriva a bordo di un’ambulanza a sirene spiegate è la zona di confine fra la vita e la morte, dove anche i secondi fanno la differenza; per chi ci arriva con le proprie gambe è il luogo della speranza, quella di una soluzione rapida a un problema di salute. Per i medici e gli infermieri che ci lavorano una trincea in cui difendersi da aggressioni verbali e fisiche da parte di pazienti in attesa da troppo tempo o dai familiari di chi purtroppo non ce l’ha fatta. Le cronache di questi giorni raccontano di episodi agghiaccianti, proprio mentre sui social viene trasmesso lo spot del ministero della Salute #noisalviamovite che si pone l’obiettivo di convincere i neolaureati in Medicina a iscriversi alle scuole di specializzazione in Medicina di emergenza-urgenza dove oggi 3 posti su 4 restano vuoti. Ma quello che oggi ci costringe a fare i conti con una situazione insostenibile era ampiamente prevedibile, ed è la somma di criticità che negli anni sono state trascurate, poi sottovalutate, e infine ignorate. Vediamole.
Chi va al Pronto soccorsoNel 2023, i dati dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas), mostrano che su 18,5 milioni di accessi nei 615 Pronto soccorso italiani (più 7% rispetto al 2022), 12,4 milioni sono «codici bianchi» e «codici verdi», dunque con problemi di salute lievi. Un «codice bianco» mediamente resta tre ore e un «codice verde» quattro, ma è appunto una media fra i pronto soccorso di provincia e quelli delle grandi città dove ben sappiamo che l’attesa di una visita può durare l’intera giornata. Nell’88% dei casi non segue un ricovero. Di questi 12 milioni, almeno 4 milioni sono definiti «accessi impropri», ossia evitabili in presenza di un’alternativa soddisfacente: il paziente-tipo ha tra i 25 e i 64 anni, è cioè in età lavorativa, si presenta al Pronto soccorso prevalentemente tra le 8 e mezzogiorno, soprattutto il lunedì, e nel 51% dei casi presenta disturbi generici. Di fatto oggi il Pronto soccorso viene utilizzato al posto del medico di famiglia.
I motivi dell’eterna crisiIl primo problema, dunque, è l’assistenza sul territorio: il medico di medicina generale è un mestiere che in pochi vogliono fare, mentre i pazienti che ognuno ha in carico spesso sono troppi, arrivano fino a 1.800, anche se il massimale è fissato a 1.500. Consultarlo al telefono è estremamente difficile, l’ambulatorio è aperto solo alcuni giorni la settimana e solo alcune ore, il più delle volte su appuntamento. Quasi mai ti visita, di solito ti prescrive un controllo da uno specialista. E qui arriviamo al secondo problema: che si tratti di una visita o di un esame diagnostico le liste d’attesa sono sempre più lunghe. Motivo per cui i pazienti vanno direttamente al Pronto soccorso, dove attendono magari tutto il giorno su una sedia scomoda o in piedi, ma alla fine qualcuno li visiterà, farà un prelievo o un esame e poi prescriverà una cura. Gratis. O al solo costo del ticket se si tratta di un «codice bianco». Il terzo problema è la carenza di personale sanitario negli ospedali che va di pari passo con la riduzione dei posti letto, per cui i malati in attesa di ricovero vengono parcheggiati sulle barelle nei corridoi del Pronto soccorso, e devono essere tenuti lì e assistiti fino a quando non si libera un posto nel reparto. Il Pronto soccorso però è strutturato per gestire le emergenze e non tutta quella mole di lavoro, anche perché il numero di medici è sempre quello. La conseguenza si scarica sui pazienti più gravi, i quali più tempo passano in Pronto soccorso e più si aggravano.
La combinazione di questi tre problemi ne genera un quarto: i medici non vogliono più lavorarci. I turni sono diventati massacranti, la pressione quotidiana enorme, e in più sono esposti ad un alto rischio di denunce, oltre alla dose quotidiana di insulti, se non vere e proprie aggressioni. Tutto questo per uno stipendio da 4.500 euro netti al mese dopo 6 anni di università, 5 di specialità e 15 di anzianità: il 70% in meno dei loro colleghi tedeschi e il 40% degli inglesi. A rendere ancora meno allettante questa specialità è poi l’impossibilità oggettiva di svolgere visite a pagamento. E così sono sempre meno i neolaureati in Medicina che scelgono di specializzarsi in Medicina di emergenza-urgenza, tant’è che nel 2023 è andato deserto il 74% delle borse di specializzazione disponibili.
La grande fugaLa commissione Affari Sociali della Camera, a maggio 2024, stima che nei Pronto soccorso sarebbero necessari oltre 4.500 medici e circa 10 mila infermieri in più. È la ragione per cui questi reparti sono diventati la frontiera più avanzata del fenomeno dei «medici a gettone», ingaggiati tramite le cooperative a colpi di 1.200 euro al giorno. Fin dal suo insediamento il ministro della Salute Orazio Schillaci ha adottato delle contromisure, prima tra tutte la possibilità di pagare i medici dipendenti 100 euro l’ora per le prestazioni oltre il turno di lavoro. Ma arginare un fenomeno ormai così diffuso richiede tempi lunghi. Nel frattempo ogni mese circa cento medici fuggono verso posti di lavoro che garantiscono una migliore qualità di vita. Avrebbe senso cominciare da subito a pagare di più sia la borsa di studio di chi sceglie questa specializzazione, sia il loro lavoro in corsia. Non è certo di stimolo l’indennità concessa qualche anno fa di 12 euro lordi a turno.
Il paradosso da risolvere In questo quadro si presenta un paradosso: il 75% dei Pronto soccorso di base, ossia quelli in cui sono assicurati gli accertamenti e gli eventuali interventi necessari per la soluzione di un problema clinico urgente ma non troppo complesso, non raggiunge i 20 mila accessi in un anno, considerati la soglia minima per garantire sicurezza e qualità di cura. Ma allo stesso tempo ci sono poi 3,4 milioni di cittadini che non riescono ad accedere in 30 minuti a una assistenza d’emergenza perché vivono lontano dai centri abitati.
Le soluzioniDifficilmente si potranno risolvere le grane dei Pronto soccorso senza mettere mano alle cause che le hanno prodotte. Una strada per potenziare l’assistenza sul territorio e ridurre le liste d’attesa almeno per gli esami di base sono senz’altro le Case della Comunità, le strutture pubbliche da costruire con i 2 miliardi di euro del Pnrr e che dovranno riunire al loro interno entro il 2026 medici di famiglia, pediatri, ostetrici, psicologi, infermieri, ecc. Per farle funzionare sarà però necessario rivedere gli accordi con i medici di famiglia, perché al momento non ne vogliono sapere di andarci a lavorare. Per colmare il buco di medici e infermieri va fatta una programmazione sanitaria corretta. Vuol dire che bisogna stabilire oggi di quali figure ci sarà davvero bisogno domani, e in che numero, poiché la durata della formazione nelle diverse specialità è di cinque anni, e infine alzare gli stipendi a chi deve operare nei reparti più critici. Per fare questo servono competenze e risorse. Trovarle è un dovere politico.