La Lettura, 15 settembre 2024
Benefici e rischi dei videogiochi
Hanno tra i 6 e i 64 anni (età media: 30 anni); 8 milioni sono uomini, 4,9 milioni sono donne. In centomila non si identificano né come donne né come uomini (dato registrato per la prima volta l’anno scorso). I videogiocatori italiani, nel 2023, erano il 31% della popolazione attiva, e hanno giocato circa 6,53 ore a settimana. Una realtà che tocca (quasi) tutti; confermata dai 2,3 miliardi di euro di consumi, che ci posizionano tra i primi cinque mercati in Europa. Lo dice il report I videogiochi in Italia nel 2023 di Iidea, l’Associazione di categoria dell’industria dei videogiochi in Italia. Per capire l’impatto che hanno su di noi, «la Lettura» ha parlato con tre psicologi.
«Come mai l’essere umano, e gli animali, giocano? Ce lo chiediamo da sempre – introduce lo psicologo e psicoterapeuta Matteo Lancini (1965), presidente della Fondazione Minotauro di Milano —. Il gioco non è, in sé, un’esperienza per la sopravvivenza. Una teoria dice che è praticato da sempre perché è una palestra di vita: aiuta ad affrontare l’imprevedibile. In età evolutiva, rappresenta un aspetto esplorativo, e nella pre-adolescenza, quando il corpo cambia, la sperimentazione di sé e delle nuove dotazioni corporee trova forma attraverso i giochi».
Prima questa sperimentazione avveniva nei cortili, continua Lancini, ora i videogiochi si sono diffusi anche perché hanno sostituito quella dimensione di gioco e di corpo libero. «C’è una tendenza a mentalizzare il corpo, che in adolescenza ha bisogno di essere pensato, visto nei limiti. Se oggi un preadolescente tirasse una pallonata alla compagna di palazzo, sarebbe visto come una violenza. Il videogioco ha assunto una funzione di simbolizzazione e di messa in campo del corpo che agisce, per esempio, attraverso un avatar». E poi: «Il corpo dei figli è sotto sequestro degli adulti, che organizzano il loro tempo, i laboratori, lo sport, ma non lasciano che sperimentino loro stessi in ambienti non presidiati dagli adulti».
«Partecipare a un videogame significa affrontare imprevisti, risolverli velocemente – aggiunge lo psicologo e psicoterapeuta Mauro Croce (1953), studioso di dipendenze non da sostanze —; è richiesta flessibilità, saper elaborare strategie: attività che stimolano funzioni cognitive. Si può giocare insieme ad altri, collaborando per raggiungere un obiettivo. Si condivide l’adrenalina della competizione, l’emozione del successo, la delusione e l’accettazione della sconfitta».
Anche Francesco Bocci, psicologo, psicoterapeuta adleriano e fondatore della Video Game Therapy (l’utilizzo del videogioco in chiave clinica), si sofferma sui benifici: «Stimola la performance, attiva parti del sé precise, legate al fare, all’attenzione, la memoria di lavoro, le funzioni esecutive, il decision making e il problem solving. Abilità che poi a livello inconscio si trasferiscono nella vita di tutti i giorni. Chi gioca con la strategia, sarà più capace a fare i calcoli e a pianificare; chi gioca con l’azione, è più facilitato a prendere decisioni nell’immediato».
Nel 2019 Bocci fonda la Video Game Therapy (Vgt; con sede a Brescia), usata negli ospedali e a livello internazionale. Spiega: «Il videogioco fa entrare in un ambiente immaginario, come fanno il teatro o l’arte. Quando i ragazzi non riescono a esprimere quello che provano, identificandosi con i personaggi, con la storia, possono vivere esperienze in una situazione controllata, non critica». Prosegue: «È importante condividerne l’esperienza perché si attiva il flow, uno stato di benessere in cui ci si sente capaci sia di controllare le azioni, sia di riconoscere emozioni, vissuti, pensieri. È molto potente e benefico rispetto ad altri mezzi, ma ci sono ancora dei pregiudizi perché non viene visto in un’ottica evolutiva».
La Vgt, che è praticata su tre fasce d’età, dai ragazzini agli over 45, favorisce la coesione del sé. Si usa con patologie come i disturbi dell’umore, quelli ossessivo-compulsivi o da discontrollo emotivo. È così strutturata: c’è una parte di conoscenza, dopo la quale si sceglie il gioco adatto al soggetto. Poi c’è un’immersione in cui si favorisce il sistema calmante («il ragazzo riesce ad autoregolarsi, a rimanere nel presente mentre sta giocando: questo richiama la mindfulness»). C’è poi una fase dialogica in cui si vanno a desensibilizzare le situazioni traumatiche; e infine si lavora sullo storytelling.
Il gioco è ritenuto utile anche per le persone disabili: «I videogiochi attivi promuovono l’attività fisica a scopo terapeutico, così come la riabilitazione», dice Croce. E Bocci: «Sarebbe meglio usare giochi ad hoc, ma ce ne sono anche di commerciali che facilitano funzioni matematiche, il coordinamento, che lavorano più sull’allenamento». E, più in generale, aggiunge: «Gli effetti negativi o positivi sono gli stessi su adulti e bambini».
Nel 2019 l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), annuncia che il gaming disorder (la dipendenza da videogioco) farà parte delle patologie mentali. Per poi fare un passo indietro durante la pandemia, lanciando la campagna #PlayApartTogether, che invita i giovani a giocare per restare in contatto con gli altri. Commenta Bocci: «Il gaming disorderha fatto passare il videogioco come una droga, quando in realtà è uno strumento digitale con tanti benefici. Non è lo strumento in sé a dare la dipendenza, ma come lo si usa. E il tipo di gioco: se rimane fine a sé stesso, non evolve, si ripete in modo automatico facendo compiere le stesse azioni, non porta a un benessere».
«Penso che l’Oms abbia creato questa categoria – aggiunge Lancini – per sostenere dal punto di vista delle cure quei giovani che sono “ritirati sociali”, come gli hikikomori. Il videogioco rappresenta un’esperienza che è un “come se”, non un “come fare”. Non è vero che i ragazzi diventano violenti perché videogiocano violentemente; se mai perché vedono una violenza reale in tv o su YouTube, dov’è sdoganata. Poi è chiaro che se un adolescente passa 7 ore a videogiocare ci sono problemi, che non sono determinati dal videogioco. Nessuna ricerca seria è riuscita a mostrare una correlazione tra l’uso eccessivo di internet, dei social e dei videogiochi e il malessere dei ragazzi: innanzitutto dipende anche da quanto li usano gli adulti; poi spesso i ragazzi che trascorrono ore sui videogiochi stanno male per altro. L’abuso di internet è determinato dal malessere, non è internet a determinare il malessere, come si semplifica, per non guardare alla società che abbiamo creato, con le sue contraddizioni e la sua povertà educativa».
Conclude Croce: «Ogni esperienza che può offrire evasione, eccitazione, che fa immergere in una dimensione diversa dalle frustrazioni, può portare a dedicarle sempre più tempo, sino monopolizzare la nostra vita. Ciò può avvenire anche con un videogioco. Allora possiamo parlare di dipendenza, o meglio di addiction; ma dobbiamo osservare tutte le variabili, e soprattutto il come, quanto, con chi, e perché si gioca. Non si parla di patologia se interessi scolastici, familiari, sportivi, affettivi vengono conservati».
L’industria dei videogiochi ha superato da anni il fatturato di cinema e musica insieme. È il genere del nostro presente. E c’è già chi parla di decima arte.