il Fatto Quotidiano, 15 settembre 2024
Biografia di Giovanni Tortorici
Esordio alla Mostra di Venezia. “Ero emozionato; il giorno della proiezione, dallo stato di ansia sono direttamente passato a quello di terrore, soprattutto all’idea di dover parlare in pubblico; pensavo ancora a quello che mi accadeva da piccolo, a quando mi tremavano le mani”.
Il suo film è autobiografico.
A un certo punto ho pure pensato di lasciare più spazio al dubbio, di mitigare la questione, poi ho capito di non essere in grado di mentire.
(Giovanni Tortorici, 28 anni, è stato una delle sorprese dell’ultima Mostra di Venezia con il suo “Diciannove”, produzione internazionale guidata dalla Frenesy Film, in coproduzione con Pinball London in associazione con Memo Films, AG Studios, Tenderstories.
“Diciannove” è la vita di Tortorici a 19 anni, oppresso da solitudine, senso d’inutilità, fuori contesto, fuori dalla socialità, fuori pure dei programmi universitari. Dove l’unica certezza è ostentare un moralismo estremo, ultimo baluardo davanti alla paura di affrontare se stesso: “Alcuni genitori che lo hanno visto poi mi hanno scritto preoccupati per i loro figli…”).
Insomma, totalmente autobiografico.
C’è giusto un minimo di fantasia, specialmente nelle battute finali, mentre tutto il resto è esattamente la mia vita da universitario in cerca di meta.
Quando si porta in scena la propria vita, spesso la propria vita non è più tanto propria.
Per fortuna non assomiglio più al me di 19 anni, così ora lo vivo come fosse un individuo separato, come una persona che conosco solo bene.
Per fortuna, sostiene.
Perché quel 19enne non ha una coscienza critica spiccata, è piuttosto alienato ed estremamente nevrotico.
È il frutto di quel 19enne.
Magari l’evoluzione, un divenire verso qualcosa di migliore.
Parla più ai ragazzi della sua età o agli adulti?
Non mi sono posto molto il problema; sicuramente solidarizzo più con i ragazzi, gli adulti li vedo in una condizione di potere.
Sul set è stato un uomo di potere?
A un certo punto ho avvertito la condizione da regista, però credo di non averne mai fatto abuso, di aver vissuto questa situazione in chiave solidale.
Uso, sì.
È necessario: il regista è in alto nella scala gerarchica.
Ha comandato maestranze adulte.
E prima di questo film non ho mai girato nemmeno un corto.
Quindi…
Mi sono sentito come in debito con ognuno di loro, però tutti rispettosi, carini; (sorride) sul set ho lavorato con professionisti importanti, tipo Chiara Polizzi, che in passato è stata la casting director pure di Matteo Garrone, quindi grande esperienza, e in alcune occasioni era proprio lei a invitarmi a parlare con la produzione: ‘Sei il regista, se intervieni si smuovono le cose’.
Funziona così.
Io stupito, per me lei era più influente di me.
Quante volte ha pensato “e ora?”
Il primo giorno è stato scioccante, per la prima scena ero senza fiato mentre spiegavo cosa sarebbe accaduto.
Come è arrivato al cinema?
Vengo da un background legato alla letteratura, ma dopo un anno di università sono entrato in una fase depressiva e vivevo la letteratura come una fase solitaria, mentre l’obiettivo era diventare un ottimo scrittore.
Non uno scrittore, ma un ottimo scrittore.
Ero ambizioso.
Chi è un ottimo scrittore?
Tra i viventi amo Sergio Benvenuto (è nel film, ndr).
Torniamo alla depressione.
Pensavo al mio futuro in chiave leopardiana: solo miseria e morte; poi non so come ma ho iniziato a pensare al domani attraverso delle immagini, attraverso il cinema e nel frattempo mi sono stufato dell’università.
Esami dati?
Solo due…
Pochini.
Ero in ansia con il mio tempo.
A 19 anni?
Davvero, il mio idolo è Leopardi, conosco tutte le sue opere e la sua vita e lui a 10 anni scriveva in latino, greco, aramaico, francese e in italiano eccellente. Mi sentivo indietro rispetto a lui e non potevo perdere tempo con degli studi che ritenevo sbagliati.
Il cinema come entra?
Piano, inoltre ero legato a un certo tipo di letteratura pre-novecentesca, così ho iniziato con pellicole neorealiste, mi sentivo più a mio agio rispetto alle categorie di giudizio: Le notti di Cabiria, Germania anno zero…
È anacronistico.
Oggi per fortuna no. Fui anacronistico e pazzerello, anche rispetto allo stile di scrittura fuori da ogni tempo presente.
Fui.
Qualche residuo è rimasto.
Il passo successivo alla sola visione dei film.
Ho sostenuto un colloquio per uno stage sul set di Luca Guadagnino, sono passato e lì ho accettato qualunque mansione, dal portare il caffè all’assistere alle riprese; per fortuna Luca è molto generoso, e agli stagisti ha permesso di assistere a ogni fase di realizzazione.
Folgorato.
I set di Luca sono magnifici, con grandissimi professionisti; (sorride) tra loro pure Francesca Scorsese e un giorno è arrivato suo padre a trovarla.
E davanti a Martin Scorsese?
Ero completamente starstruck (colpito da una stella, ndr).
Gli ha chiesto un selfie?
Non mi sarei mai permesso e Luca mi avrebbe licenziato subito.
Nel film si descrive come un ragazzo senza desiderio di socialità. Mentre il set è socialità.
Eppure sono stato a mio agio. Giusto all’inizio, quando ero l’ultima ruota del carro, è accaduto qualcosa di sgarbato, ma è normale; nella sostanza ho trovato un ambiente affine, spesso non conformista e con passioni culturali interessanti.
Come ha deciso di scrivere la sceneggiatura della sua vita?
Nella fase di formazione mi sono innamorato di tante opere autobiografiche: da Leopardi, in particolare il suo Epistolario, fino a Benvenuto Cellini e Vittorio Alfieri.
Leopardi lo sa a memoria.
(Sorride, a lungo) Lo conosco veramente bene.
Quanti libri critici ha letto su di lui?
No, direttamente lui; proprio i libri critici sono l’aspetto che mi ha allontanato dall’università: detestavo i filtri, preferivo e preferisco gli scrittori bravi del suo tempo o di poco tempo dopo che lo affrontano.
Tipo?
Niccolò Tommaseo, arcinemico di Leopardi, o le lettere di Pietro Giordani che al contrario lo ha spinto e sostenuto.
Guadagnino è il suo Pietro Giordani.
Non mi permetterei perché Leopardi è superiore a Giordani; (pausa) anche con il cinema poi sono arrivato alla nouvelle vague, alla chiave personale…
Alla Nanni Moretti?
Mai visto un suo film, però conosco la fama; (ci pensa) ho affrontato giusto alcuni minuti, ma non trovo nulla di lui, e non lo dico con disprezzo, ma abbiamo un’estetica diversa e i suoi personaggi hanno una coscienza politica differente; di Moretti ho trovato in Rete la storica intervista con Mario Monicelli da Arbasino…
La celebre lite. Tra Moretti e Monicelli, con chi stava?
Con Monicelli e mi ha scandalizzato questo ragazzo di 24 anni così deciso contro un maestro.
Il suo film ha scandalizzato qualcuno?
Alcune persone che conosco, conservatori, quasi reazionari, sono rimasti colpiti; stessa storia con Famiglia Cristiana: ha pubblicato una bellissima recensione nonostante una bestemmia e un “porco il clero”.
Lei è conservatore.
Oggi zero, ma lo sono stato pesantemente; per fortuna ne sono uscito e detesto tutto quello che lo è.
Cosa l’ha salvata?
Incontri, esperienze, vita.
In particolare?
Ero represso, chiuso, sublimavo tutto in una morale restrittiva; ero una persona che non sfogava le proprie pulsioni.
Nel film c’è una forte pulsione sessuale trasversale.
Lo so, tutto il tempo.
C’è una scena forte con un barbone sul treno.
Quelle pulsioni erano così potenti e vigorose che uscivano fuori nei modi più strani; l’eros compresso è il punto focale.
Le hanno mai dato del cripto-fascista?
Eccome, anche perché a un certo punto della mia vita è entrata la letteratura novecentesca, così amavo gli scrittori aderenti alla destra come D’Annunzio, Papini, Prezzolini e tutta questa ghenga qua; poi apprezzavo la Storia della Repubblica di Accame, soprattutto il suo uso dell’italiano; (cambia tono) un giorno ho preso tra le mani il libro di Ralph Waldo Emerson, filosofo statunitense, contro ogni tipo di conservatorismo e qualcosa si è incrinato.
I suoi genitori hanno visto il film?
Non ancora, ma sono preoccupatini per il carattere personale.
Sua sorella?
Ne ho due, una si è occupata dei costumi, l’altra è impersonata.
E quella impersonata?
Si è commossa e le sono arrivati i sensi di colpa su di me; l’ho rassicurata con un “tranquilla, ero un po’ disadattato”.
Ha fatto psicanalisi.
Certo, con uno junghiano.
Guadagnino cosa le ha insegnato?
A seguire ciò che volevo, a evitare i compromessi altrimenti “il film si rovina”. Lui su questo è stato categorico.
Quando lo riguarda già si pente di qualche cosa?
Capita, ma siccome è un’opera prima è bello rivedere qualcosa di ingenuo.
Per ogni opera prima il problema è la seconda…
A Roma mi hanno immediatamente investito della tipica frase da cineasti: ‘Bravo, hai girato due film: il primo e l’ultimo’.
Un classico.
Invece a ottobre inizio il casting del prossimo, basato su ragazzi sedicenni.
Sempre lei a 16 anni.
Sì, mi piace.
È sui social?
Ho solo Instagram dal quale mi sarei cancellato, ma non posso: ho un omonimo, anche lui regista, ma vive ad Atlanta e molti credono che sia io; a un certo punto mi ha contattato: ‘Non sai quante email ho ricevuto per te’. Non me le voleva girare. Fino a quando gli ho spiegato: ne ho anche io una per te.
Scambio di prigionieri.
Ho trovato messaggi assurdi di persone che si proponevano per un lavoro.
Come regista dà lavoro. Ora gli attori la trattano in maniera diversa?
Alcuni sì, è normale.
Lei chi è?
Un ragazzo di 28 anni palermitano. Che ha iniziato a fare il regista.
È regista.
Ora posso definirmi tale.