il Fatto Quotidiano, 15 settembre 2024
Gian Carlo Caselli: “Politici a gamba tesa: solo qui non accettano di farsi processare”
“Alessandro Galante Garrone disse: ‘In certe situazioni non basta per un giudice essere intellettualmente onesto e professionalmente preparato: per poter ricercare e affermare la verità bisogna anche essere combattivi e coraggiosi’. Mi sembrano le parole migliori per commentare quel che sta accadendo. Se Meloni interviene a piedi giunti su un processo in corso, bisogna essere qualcosa in più di un giudice intellettualmente onesto per fare il proprio lavoro, nell’unico Paese al mondo dove la politica non accetta di essere giudicata”. La tocca piano l’ex procuratore di Palermo e Torino Gian Carlo Caselli, mentre sono ancora fresche le interviste a Giovanni Toti e Matteo Salvini sul Liguriagate e su Open Arms. Col primo che spaccia il patteggiamento quasi per un’assoluzione, e il secondo che parla di “processo politico vendetta della sinistra”. Come se il codice penale non esistesse.
Caselli, sta leggendo Toti, Salvini e le dichiarazioni a loro sostegno?
Emergono tra gli altri un paio di difetti. Il primo è l’identificazione della verità con l’utilità e la convenienza: è vero ciò che mi conviene e ciò che mi conviene lo presento come vero. L’altro è la distorsione continua delle parole e del loro significato.
Ci fa un esempio?
Il patteggiamento. Si patteggia quando non si è convinti di poter dimostrare la propria innocenza. Chi patteggia riconosce che le accuse a suo carico non possono essere smontate facilmente, ci sono degli elementi probatori robusti. Dire che invece così viene smontato il teorema della procura, l’imputato vince e la procura è asfaltata, è appunto distorcere il significato delle parole non per far passare una verità ma far passare quel che conviene a me.
Stamane (ieri mattina per chi legge, ndr) molta stampa di destra ha sfornato titoli assolutori sul patteggiamento di Toti.
Dimenticando che c’era stata un’inchiesta dalla quale erano scaturiti degli arresti. Fatta salva la presunzione di non colpevolezza, se ci sono provvedimenti cautelari, elementi per sostenere le accuse ce ne sono.
E la premier Meloni che scrive “incredibile che un ministro rischi 6 anni per aver difeso i confini della Nazione, come richiesto dal mandato ricevuto dai cittadini”, che riflessioni le suggerisce?
Un presidente del Consiglio che interviene a piedi giunti su un magistrato qualunque che sta facendo il suo mestiere è uno squilibrio istituzionale. Siamo oltre la critica, c’è una stortura, uno squilibrio che non fa bene alla democrazia e all’esercizio indipendente della giurisdizione.
Quale stortura?
Soltanto nel nostro Paese quando il processo riguarda un personaggio eccellente succede che la giurisdizione non sia soltanto criticata, ma anche non accettata. È una specie di applicazione di un processo di rottura che consiste nella non accettazione di essere giudicato. Solo in Italia non si accetta il principio di legalità che la legge è uguale per tutti. Altrove si critica, ma non si nega in radice il principio di giurisdizione.
Il primo in questo campo è stato Silvio Berlusconi.
Il primo dell’epoca moderna. In due interviste contemporanee a Boris Johnson per The Spectator e alla Voce di Rimini arrivò a dire che per fare i magistrati bisognava essere malati di mente e antropologicamente diversi dalla razza umana. Anche questo era un rifiuto della giurisdizione, oltre al lodo Alfano.
Invece Giulio Andreotti dalle accuse di mafia si difese nel processo.
Ma intorno a lui c’era una batteria di assalto: politici, il Vaticano, organi di informazione che ci pensavano loro a sparare ad alzo zero per lui.
Infatti scrissero di assoluzione piena anche loro.
La Corte d’Appello di Palermo mise nero su bianco che Andreotti aveva commesso il reato di associazione a delinquere mafiosa fino al 1980, reato prescritto. Ricostruire quella sentenza come un’assoluzione non stava né in cielo né in terra.