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 2024  settembre 14 Sabato calendario

E Munch dipinse la fine di un amore

La morte di Marat IIè un’opera scabra ed essenziale. Due figure in uno spazio indefinito, nessun elemento esornativo. Un uomo nudo giace supino su un letto. Lo caratterizzano solo i baffetti e la zazzera dei capelli biondo-scuri. Si trova in una stanza, ma la parete che la chiude (verde) è resa con una griglia di pennellate quasi informali. Il braccio destro pende inerte di qua del materasso. La mano, il polso e l’avambraccio sono di un colore più scuro rispetto al resto del corpo: marrone, ruggine. Nuda, in piedi, le braccia lungo il corpo, una donna dai capelli biondo-rossi si offre ieratica e immobile: frontale, come la statua nella nicchia di un tempio, una cariatide, o una colonna. (Una posizione che Munch aveva sperimentato già in molte delle sue opere sulla relazione conflittuale tra uomo e donna). La frontalità è anche sfrontatezza. Pure il volto di lei è appena abbozzato: ma si riconoscono gli occhi, il naso, le sopracciglia. È indifferente come un idolo, la dea di una religione estinta. Il quadro è dipinto con larghe strisce di colore, che si giustappongono. L’esecuzione enfatizza la semplicità austera della composizione: linee orizzontali (il letto, l’uomo) e verticali (la donna, la riga che separa la parte verde da quella color corteccia della parete alla destra di lei). Il quadro comunica l’impressione claustrofobica di una stanza chiusa, pur senza mostrare altri dettagli dell’ambiente. Potrebbe essere una scena erotica: l’uomo è spossato dopo aver fatto l’amore.
Ma il titolo rimanda a un crimine, che chiunque conosce: dunque fra i due è avvenuto ben altro. L’uomo è stato assassinato.
La morte di Marat IIè la versione migliore e definitiva – anche se non finale – di un soggetto che ossessionava Munch da anni. Raffigurava una scena reale e insieme la visione straniata e ricorrente di un incubo legato al suo vissuto.
Munch dipinse la prima Morte di Marat fra il 1906 e il 1907. Le dimensioni ridotte e la rapidità dell’esecuzione fanno pensare a un esperimento. Vi sono ancora l’uomo disteso e la donna in piedi: ma nudi entrambi, e in uno spazio esterno. Nella natura, poiché dietro di lei verdeggia una siepe. Stavolta la ferita sembra investire i genitali di lui – sui quali Munch dipinge una striscia di colore rosso scuro. Lo stesso che usa per il pelo del pube di lei. E per i suoi capelli.
Il nuovo La morte di Marat risale invece al marzo del 1907, quando Munch aveva l’atelier all’hotel Hippodrome di Berlino. Lì lo vide Gustav Schiefler, che annotò nel diario: «Sta dipingendo un grande quadro che raffigura in primo piano una donna nuda eretta, a figura intera, vista di fronte, mentre dietro di lei giace un uomo nudo assassinato. Lui lo chiama La morte di Marat». Il titolo si è dunque ormai fissato. Slittando dalla generica “natura morta” o dalla scena borghese di un omicidio contemporaneo, alla storia, Munch ottiene un duplice effetto. Distanzia da sé il ricordo e ne raddoppia la risonanza: l’episodio meschino, di cui è stato vittima, assume significati più universali. Marat era un intransigente plebeo, che viveva in ascetica povertà; Corday era nata in una famiglia ricca; lui estremista, lei moderata. Tulla Larsen, che frequentava la bohème di Berlino e Christiania, non era nulla di tutto ciò, ma ormai nel ricordo deformato di Munch lo era diventata. Lo aveva quasi costretto al matrimonio, normalizzazione borghese di un rapporto d’amore, lo aveva indebolito per estinguere le forze vitali che lo rendevano artista. E Munch, nonostante i successi, nel 1907 continuava a vedersi come un’anomalia nel sistema dell’arte, un irriducibile. «Io sono un romantico» disse al cugino Ludvig Ravensberg nel corso di una conversazione ancora nel gennaio del 1910. Nel 1907 può rivendicare di essere un ribelle: Marat.
Il pittore denuda i fantasmi dellamemoria, ma inonda la tela di sangue. Rosso vivo, è schizzato sulla parete verde sopra il letto; chiazza il lenzuolo e assume sulla tela una consistenza plastica, materica, grumosa. La mano destra di lui sfiora quella di lei: guida lo sguardo dello spettatore in un’accusa muta. I nudisono carnali ed erotici, i peli del sesso di entrambi neri. Vortici di colore deformano il tavolo, la frutta, la parete verde acido. È una scena di macelleria efferata. Sul muro, si proietta l’ombra scura della donna – che in tutti i quadri di Munch evoca la potenza sinistra dell’inconscio, l’identità profonda e nascosta, e dunque autentica, della persona.
Solo nell’ultima versione, dettaLa morte di Marat II,completata nella località balneare tedesca di Warnemünde nell’estate del 1907, Munch trascende la dimensione confessionale e vendicativa, ed elimina ogni riferimento personale. Il processo di depurazione è compiuto. L’esecuzione è quasi brutale, i colori (pochi) appassiti. Secondo Schiefler, si è servito perfino di due modelli (la coppia di coniugi Grävenitz), che ha fatto posare in studio per studiarne i corpi. Ma nell’esecuzione finale il pittore restituisce ai due personaggi qualche tratto delle persone reali che devono rappresentare, come in un messaggio cifrato: i capelli rossi e la corporatura snella di lei, i baffetti dell’uomo (identici a quelli che Munch portava nel 1904-08, come si vede negli autoscatti da lui realizzati). Insomma, trasforma la scena nell’allegoria del crimine mitico: la donna assassina. Per l’esposizione del marzo 1908 della Societé des Artistes Indépendents alle Serres du Cours-la Reine di Parigi invia un Étude de femme, Soir e Nuit claire, ma è questo, contrassegnato dal n. 4413, il suo preferito. La critica francese, ignara dell’antefatto privato, non gli presta troppa attenzione.
Munch, che impugnava la rivoltella, si sparò alla mano sinistra. Nella rappresentazione pittorica, però è sempre la mano destra quella schizzata di sangue, o color ruggine. Questa inversione simbolica spiega – al di là del titolo, perfino fuorviante come un alibi – il significato autentico che ormai dava all’attentato. La mano destra non è un arto o un’appendice qualunque, ma la parte del corpo più importante per un pittore: è quella che impugna il pennello (l’arma dell’artista, come la penna nel caso di Marat, infatti raffigurata da David). Mutilargli la mano significa esautorarlo, togliergli la forza, il genio, il potere (come nella tradizione classica e poi decadente tagliare all’eroe i capelli, la testa, il pene).
Lei era Tulla Larsen che avrebbe voluto sposarlo