Il Messaggero, 15 settembre 2024
Biografia di Diego Abatantuono
Nel suo nuovo film, L’ultima domenica di settembre dell’esordiente Gianni De Blasi, Diego Abatantuono è un vecchio scrittore in declino, da poco vedovo, che nella prima scena cerca di suicidarsi ingurgitando decine di pillole. Viene interrotto dalla polizia che bussa con insistenza alla sua porta per dirgli che la figlia e il genero sono morti in un incidente d’auto e deve andare in obitorio per riconoscere i corpi. Da adesso in poi, gli dicono, sarà lui a doversi occupare del nipote sedicenne (Biagio Venditti). I due, che quasi non si conoscono, si ritroveranno così a convivere in maniera indesiderata e faticosa fino a quando non dovranno affrontare un viaggio imprevisto che potrebbe rivelarsi fondamentale, e sorprendente, per entrambi. Al telefono per questa intervista, la prima domanda –,a sorpresa – la fa Abatantuono: «Ha visto il film, le è piaciuto?». Diciamo che dopo i primi minuti, per andare avanti, ci vuole un certo impegno.«È vero. Però le storie che partono tragicamente alla fine incontrano un po’ di speranza e questo giustifica tutto. E poi a me i film drammatici piacciono».In questo è uno scrittore scostante a anaffettivo che non racconta più storie più ma ha sempre con sé un taccuino su cui annota “quelli che mi stanno sul cazzo”. Chi c’è nella sua lista?«Ovviamente il razzista, l’omofobo, l’assassino etc., ma la verità è che per me i peggiori sono quelli che tradiscono l’amicizia».
Lei è stato molto tradito?«Due volte. Da giovane quando cominciai a fare tanti film, anche troppi, il mio amico commercialista non pagò l’Iva per fregarmi i soldi. Per fortuna mi sono rifatto, ma è stata proprio una brutta cosa. Non tanto per il denaro, ma perché una manovra così è stata pensata e ragionata. C’è stata cattiveria. E poi...».La seconda volta?
«È stata più pesante. Una vicenda con risvolti psicologici che mi ha fatto veramente male. E per questo è anche più difficile da raccontare».Si sforzi.«No, è una cosa mia. Chi sa, capisce perché non voglio parlarne. Comunque nella vita vera io non ce l’ho il libretto dietro. Quelli che non mi piacciono li evito».Un periodo così brutto come quello che vive il nonno del film l’ha mai vissuto?«Non ho mai pensato al suicidio, ci mancherebbe. I miei genitori sono morti presto, a settantatré anni, e sono stato tradito da qualche amico, ma a parte questo ho avuto una vita fortunatissima. Ho una famiglia meravigliosa, amici e lavoro. Invecchiare non mi diverte, ma finora me la sono goduta come un pazzo».Nel film in quell’elenco ha messo anche i camionisti: uno dei suoi migliori amici non era Biofa, un trasportatore al quale ha dedicato il suo libro del 2022, “Si potrebbe andare tutti al mio funerale"«Certo. Infatti non la volevo dire qualla battuta. Biofa, che non c’è più e si chiamava Fabio Cappellotto, è uno degli amici che ho amato di più. Era uno della nostra compagnia al Derby, e se tutti con il tempo hanno trovato il modo di sfangarla in qualche modo – come me – lui alla fine è stato l’unico che ha davvero lavorato tutta la vita con il suo camion. Era allegro e sorridente. Il personaggio di Peo Pericoli di Teo Tecoli era ispirato a lui. Era un grande, Fabio».Nel libro, invece, ha raccontato anche di quella sera al Derby quando un delinquente frequentatore abituale del locale lasciò una pistola al suo amico e collega Mauro Di Francesco prima di scappare: a lei è mai successo?«No, per fortuna. Però in quegli anni c’era un’atmosfera speciale e ogni sera poteva succedere di tutto. C’era gente di ogni tipo e penso di essere stato bravo a intuire che bisognava ascoltare, metabolizzare e trasformare quanto quell’umanità così unica e talentuosa poteva darmi. La storia della pistola me l’ha raccontata Maurino (attore comico popolarissimo negli Anni Ottanta e Novanta, ndr), ma ovviamente potrebbe anche essere una mezza balla (ride, ndr)».È vero che sua madre, guardarobiera del Derby, quando Renzo Arbore venne a cercarla, all’ingresso gli disse di andar via? «Sì. “Lo lasci perdere, mio figlio: l’è uno scemo”. Era così, mia madre. Poi mi vedeva sul palco e rideva».Il fuoco sacro ce l’ha mai avuto?«Mai. Le cose mi sono successe sempre naturalmente». Fra i tanti film drammatici fatti a quale è più affezionato?«Ne cito uno per tutti: Io non ho paura di Gabriele Salvatores, un amico e ormai da una vita quasi parente (il regista è il compagno della scenografa Rita Rabassini, prima moglie di Abatantuono e madre della loro primogenita Marta, ndr), film in cui facevo uno dei rapitori del bambino».Lo sfizio da togliersi prima dei settant’anni qual è, se c’è?«Vorrei perdere peso per questioni di salute, non certo estetiche. Su quel fronte ho già dato, da giovane di sicuro non ero orrendo. E poi ne ho un altro molto più semplice: vorrei poter andare a fare il bagno al mare in una spiaggia deserta. Se oggi vado, passo ore a fare foto. C’è chi mi ferma per un selfie anche in acqua. Giuro». A proposito di spiagge deserte, quando nel 2004 ci fu lo tsunami che travolse l’Oceano indiano lei era con famiglia e amici alle Maldive: fu la volta che se la vide più brutta?«Certo. Per le vacanze di Natale andammo in una specie di paradiso che all’improvviso si trasformò in un inferno. Che paura. Rimanemmo bloccati per giorni. Ci andò benissimo».Federico Buffa, milanista come lei, la scorsa settimana ha detto che questo è il Milan meno romantico di sempre: che ne pensa?«Ha ragione. È così. Pensi a Ibrahimovic, che sembrava romantico in campo, ma fuori è solo l’uomo immagine di un business. Ormai contano solo i soldi. E poi bisognava tenere Pioli e consultare i tifosi».Pupi Avati per il film che nel 1986 le cambiò la carriera, “Regalo di Natale”, voleva Lino Banfi, che rifiutò: ne ha mai parlato con il comico pugliese?«No. Avati me lo confessò anni dopo che non fui la sua prima scelta. Ho grande stima di Lino, ma non lo conosco anche se ci siamo sfiorati in un film per un minuto e mezzo. Non lo so come sarebbero state la mia vita, quella di Banfi e quella di Pupi se le cose fossero andate diversamente. Forse io avrei aspettato ancora un po’ e forse avrei fatto un altro film così importante. Chi può dirlo?».Mai pensato di fare un film da regista?«Non sono convinto di essere in grado di raccontare belle storie che piacciano e abbiano un valore aggiunto. E poi oggi lo fanno tutti, a me piace essere originale».Il film che recentemente l’ha colpita di più qual è?«Quello di Paola Cortellesi, un’esordiente. Di questi tempi è abbastanza raro vedere un film con tanto spessore».Come cantava Frank Sinatra per lei “il meglio deve ancora venire”?«Non lo so. Non ho la voglia di una volta, e sono pigro, però questo lavoro mi piace ancora. E poi devo lavorare perché ho una famiglia grande e smettere metterebbe un po’ in difficoltà qualcuno».Se sua figlia le lasciasse i tre nipoti per una settimana se la saprebbe cavare da solo?«Mia figlia, per come è fatta, li lascia solo per qualche ora, quindi non saprei. Però hanno sette, cinque e mezzo e tre anni e mezzo: sono un turbinio che mi mette a dura prova. Me li godo tutti, ma è un po’ faticoso. Un po’ come avere il Circo Medrano in casa».Fra cent’anni, quando sarà, che fine farà: paradiso o inferno?«Sicuramente non andrò sottoterra perché saranno le mie ceneri saranno sparse sotto un bellissimo albero. Fra cent’anni mi piacerebbe tantissimo se qualcuno ridesse ancora con le cose che ho fatto io. Quello vorrebbe dire essere rimasti».In Dio crede o no?«Sono ateo. Credo nella bontà delle persone, nella giustizia e nei doveri che si hanno nei confronti degli altri. Sono per i valori di Gesù».È vero che questo nuovo film l’ha girato tutto con un piede rotto?
«Sì. Sono caduto e non mi piaceva fermare tutta la produzione, a basso costo, di un regista esordiente. Avrei creato davvero un grande problema a tanta gente. Le scene più drammatiche, quelle più intense e piene di dolore, mi sono venute benissimo (ride, ndr)».