il Giornale, 15 settembre 2024
E anche la cultura di massa tra supereroi e social non si sente troppo bene...
Dwight Macdonald (1906-82), critico letterario e sociologo, noto per il saggio Masscult and Midcult (1960), disprezzava la cultura di massa, che considerava pura merce, pezzi fabbricati in serie, scopiazzati dalla cultura alta o bassa, rimasticati in qualche modo e poi sputati fuori da una catena di produzione pseudoculturale a uso e consumo di una massa di individui indistinta. Del resto, ai tempi la sinistra intellettuale era convinta che la cultura di massa addormentasse la coscienza, trasformando l’essere umano in un semplice ingranaggio della macchina capitalista. Ma, almeno, Macdonald certificava l’esistenza di una cultura di massa e, insieme, l’indubbio successo di tutta una serie di sottoprodotti culturali (narrativa di intrattenimento, cinema di genere, musica e arte «pop») di facile fruizione da parte di quella fetta di pubblico che aveva poco tempo e una bocca buona. Un fenomeno che segnò gli anni Sessanta e Settanta e che si è trascinato, in modi e forme diverse, fino alle soglie della società digitale, cioè l’oggi: l’iper-modernità.
Bene. Ma adesso, cosa succede? Ce lo spiega Vanni Codeluppi, sociologo che studia l’azione dei media e i consumi culturali, nel saggio La morte della cultura di massa (Carocci). La tesi? Ritiratasi in nicchie sempre più ridotte la cultura alta (i lettori forti, coloro che leggono almeno un libro al mese, in Italia sono l’11 percento), e – aggiungiamo noi – sparita la cultura bassa, disciolta in pozzangheresempre più ampie di sub-cultura, non-cultura e analfabetismi di ritorno, la culturadi massa, da sempre la spina dorsale della società, ha subito un progressivoabbassamento di quella creatività e di quella originalità che per lungo tempo hanno comunque caratterizzato anche la musica, i fumetti e il cinema più popolare. Il crollo qualitativo è stato tale che a un certo punto i prodotti di fascia media si sonoinabissati in una crisi senza ritorno, fino a determinare la morte stessa della cultura di massa. Tra i fattori-killer: la frammentazione dell’offerta mediatica, la suddivisione degli utenti in gruppi, sottogruppi, nicchie e fandom sempre più piccoli, un cambiamento radicale delle abitudini e delle diete mediatiche dell’utente-consumatore. Non esiste più la massa che compra gli stessi giornali, vede gli stessi film e gli stessi programmi in tv, legge gli stessi libri – contemporaneamente - favorendo una identificazione collettiva; ma esistonoindividui isolati o piccoli gruppi che vivono chiusi dentro sciami digitali, travolti da flussi continui di dati, informazioni, immagini, suoni, con tempi di fruizione dei prodotti culturali sempre più brevi (il filosofo Michel Serres ha calcolato che il tempo medio di sopravvivenza delle immagini mediatiche
odierne è di sette secondi). Parole chiave: frammentazione, dissoluzione, disgregazione.
I libri non si comprano, sostituiti dall’incontro con l’autore ai festival o in tv; i testi non si leggono ma si ascoltano gli audiolibri. I giornali di carta e i siti di informazione aumentano il flusso di notizie ma riducono la lunghezza e la complessità dei pezzi. Gli articoli si scrollano sul cellulare. I film e le serie tv si guardano a doppia velocità (il futuro è dello speed-watching), lo sport e i grandi eventi sono condensati in highlights, e per tutto il resto c’è un post su Instagram o un video di TikTok (e qui non siamo più neppure di fronte a un processo di comunicazione ma a un flusso di contenuti ininterrotto che ha l’unico fine di essere visto).
Conseguenze? L’affermazione dell’effetto Netflix e dello streaming domestico (con quattro persone in famiglia che consumano quattro prodotti diversi), la globalizzazione della cultura (i libri di Harry Potter o il film Barbie o la serie Squid Game campioni di vendite e di incassi dal Canada alla Polinesia), la «marvelizzazione» della cultura» (ripetizione dei personaggi e delle situazioni per facilitare l’identificazione da parte del lettore-spettatore), il trionfo delle forme elementari e poco distintive nel linguaggio musicale (i concerti di Taylor Swift o Rihanna, dove la potenza dello spettacolo fa passare in secondo piano la qualità estetica dei testi e della musica).
E così, dalla cultura imposta alle masse come strumento di distrazione e dominio (era l’idea della Scuola di Francoforte) siamo passati al tramonto della cultura di massa. È l’estetica della superficie; il culto del banale. Ora non interessa più che tipo di soggetto ci sia in scena, quale sia la sua originalità o il suo valore culturale; basta che ci sia qualcuno o qualcosa. La metafora di Marshall McLuhan del «bordello senza muri» (era il 1964) si è inverata nei reality show, nella piattaforma OnlyFans, nel flusso ininterrotto di gattini sul web o nell’«uovo di Instagram» (la foto di un normalissimo uovo su sfondo bianco) che ha ottenuto 50 milioni di like (!).
Lo diceva già Zygmunt Bauman: «La cultura non ha un volgo da illuminare ed elevare; ha, invece, clienti da sedurre». Che, appunto, è l’esergo del saggio di Codeluppi da cui siamo partiti. E così il flusso continua