La Stampa, 15 settembre 2024
Biografia di Alberto Barbera
Lo schermo in testa. Quello grande, con gli attori ad altezza quasi reale, fin da bambino, a cinque anni, nel cinema parrocchiale dove lo zio sedeva alla cassa. Ruota tutta intorno a quel grande rettangolo bianco la biografia di Alberto Barbera, 74 anni, direttore artistico della Mostra del cinema di Venezia. Da sedici edizioni è lui il regista dei registi, l’organizzatore della rassegna, il maestro concertatore di uno dei red carpet più importanti del mondo. Una vita trascorsa tra i professionisti della finzione: «Per me la finzione cinematografica è stato il modo migliore per afferrare la realtà».
Come si passa dal cinema parrocchiale di Occhieppo inferiore, periferia di Biella, a scambiarsi gli auguri di Natale con George Clooney? Il primo segreto è quella che negli anni Settanta si chiamava «pratica dell’obiettivo»: ottenere il proprio scopo costi quel che costi. «Da piccolo mio padre cercava di raccontarmi lunghe storie la domenica pomeriggio per darmi un’alternativa, altri interessi. Ma io all’ora del film gli dicevo: grazie papà adesso vado al cinema dello zio». E dire che il primo incontro era stato uno shock: «Ero piccolissimo. Ho scostato il tendone di velluto dell’ingresso e sullo schermo è comparso un arciere che balzava da dietro un cespuglio e uccideva il re. Mi sono spaventato da morire e sono scappato». Ma presto negli occhi del bambino il terrore della prima volta si è trasformato in grande meraviglia. Quali film ti attiravano? «All’inizio i peplum. Le storie dell’antica Roma erano molto più avvincenti sullo schermo che nei libri di storia. Poi i western. Per me il western è il cinema». Ci sono western che riguardi ancora oggi? «Mucchio Selvaggio. L’ho rivisto decine di volte. Ancora oggi piango alla scena finale».
Bisogna essere perseveranti e appassionati. «Ricordo la gioia di quando il parroco affidò a me e ad altri ragazzi l’organizzazione del cineforum». Non consegnavate il Leone d’oro ma quel cineforum parrocchiale equivale al primo cent di Paperone, l’inizio di tutto. Che cosa proiettavate al cinema parrocchiale? «Una delle prime pellicole fu Lontano dal Vietnam, un documentario di grandi registi francesi, da Godard a Lelouche a Resnais, contro la guerra. Era il ’67. Ho chiamato un professore del liceo, uno che conosceva a menadito la storia del cinema. Venne e cominciò una disamina di critica approfondita sullo stile della narrazione cinematografica. Ci fu la rivolta in sala. Il pubblico del cinema parrocchiale voleva parlare delle manifestazioni contro l’intervento degli americani, per la pace». Come si diceva allora, non era la fase di raffinate analisi sullo stile dei registi. Era l’ora della rivoluzione. «Nel ’69 andai a Torino, mi iscrissi ad architettura. Non c’erano lezioni vere e proprie. Ogni aula era occupata da un gruppo diverso: Lotta Continua, Avanguardia operaia, Potere Operaio». Tu a quale gruppo ti sei aggregato? «C’era un’aula per chi era autonomo, nel senso che non apparteneva ad alcun gruppo. Ma abbiamo avuto il nostro momento di gloria quando andammo alle Vallette a occupare un alloggio per darlo agli operai». Come andò a finire? «Arrivò subito la polizia. Uno di noi, nel tentativo di sfondare una porta, perse una scarpa. Chiese al poliziotto se prima di manganellarlo gliela lasciava recuperare». Quali altre gesta in quel periodo? «L’apertura di una sede di Potere Operaio a Occhieppo inferiore». Quanto durò Potere Operaio a Occhieppo? «Qualche settimana. Poi una mattina i carabinieri si presentarono da mio padre e gli fecero capire che non era cosa...». Finì lì la tua militanza politica? «Finì quando capii che la situazione si faceva pericolosa. A Torino abitavo in un grande appartamento sopra il mercato di Porta Palazzo con una decina di studenti. Era un porto di mare, un via vai continuo a tutte le ore del giorno e della notte. Una mattina alle quattro arrivò la polizia. Cercava uno di noi che, avremo scoperto dopo, era entrato nelle Br. Non lo trovarono. Ma alle 8, andandosene, un poliziotto ci fece i complimenti per l’ordine in cui aveva trovato un alloggio di studenti».
Cambiare aria, cambiare facoltà. Abbandonare l’architettura, quella delle case dei ricchi e quella delle case popolari, da occupare per darle agli operai. Tornare alla letteratura, la facoltà di Lettere come strada più veloce per occuparsi di cinema, la pratica dell’obiettivo. «Un amico mi mise in contatto con Gianni Vattimo. Concordammo insieme un piano di studi che mi faceva trascorrere al cinema buona parte della giornata. Mi disse: io te lo firmo ma ci devi mettere almeno l’esame di filosofia morale». Così il giovane Barbera si forma alla scuola di professori come Guido Aristarco e Gianni Rondolino. Soprattutto Gianni Rondolino con cui collaborerà negli anni successivi. E comincia a frequentare il mondo del cinema d’essai: «Facevo le schede dei film per gli iscritti all’associazione, l’Aiace. Eravamo una potenza, avevamo 28 mila soci. Nel 1979 cominciai a scrivere le recensioni cinematografiche sulla Gazzetta del Popolo», il più antico quotidiano torinese.
La carriera di Alberto Barbera passa dalla segreteria dell’associazione dei cinema d’essai al Festival Cinema giovani di Torino, l’antenato dell’attuale Tff, che dirige dal 1989 al 1998. «Per me fu un periodo entusiasmante. Finalmente il cinema era diventato il mio lavoro. Per un festival indipendente era decisivo proporre pellicole e registi nuovi, che nessuno dalle nostre parti conosceva. Giravo il mondo. Eravamo in pochi a farlo. Un giorno mi trovai su un vecchio Tupolev in volo verso il Kazakistan. Ero insieme a Marco Muller. Fummo trattati come capi di stato».
E poi Venezia. Un viaggio di andata e ritorno, legato alle alterne vicende della politica. «Nel 1998 mi chiamò Paolo Baratta, presidente della Biennale. Ma io non volevo dirigere Venezia. Stavo bene a Torino. Mi fece una corte di un mese e mezzo. Alla fine fu Rondolino a convincermi: “Alberto, come si fa a dire di no a Venezia?”. Fu un’esperienza breve. Il tempo di eleggere Berlusconi alla presidenza del consiglio e Giuliano Urbani ministro della Cultura. La Lega voleva lo spoil system e nel 2001 l’ottenne. «Tornai a Torino. Chiamparino mi propose la direzione del Museo nazionale del Cinema. Un ruolo che all’epoca non c’era. Insieme a Chiamparino, Enzo Ghigo e il presidente, Sandro Casazza, ci mettemmo due anni ma ci riuscimmo». Eppure Venezia era nelle stelle.«Quando nel 2011 Baratta, tornato alla guida della Biennale, mi ripropose la direzione della Mostra, dissi di sì a due condizioni: di mantenere la direzione del Museo a Torino e di puntare sulla qualità dei film. Venezia stava affondando, soprattutto perché da anni non venivano più gli americani». Convincere Hollywood a venire in laguna non deve essere difficile... «Dici? Sai quanto spende oggi una produzione americana per portare un film a Venezia? Un milione di dollari». In effetti è più comodo andare a Toronto, il festival canadese al confine con gli Stati Uniti. Come hai fatto a convincere gli americani? «Ho cominciato ad andare a Hollywood a fare il giro delle sette chiese tra le case di produzione. La Warner mi propose un film su cui non sembravano scommettere troppo. Me lo presentarono con un certo scetticismo. Feci una scelta azzardata: lo scelsi come opera di apertura della Mostra del 2013. Il febbraio successivo Gravity vinse sette Oscar. Nacque la convinzione che Venezia poteva essere un buon trampolino di lancio per vincere a Hollywood». E così gli americani sono tornati.
Alberto, com’è la vita del direttore di Venezia? «Non metterti a ridere: un inferno. Intendiamoci, un lavoro entusiasmante. Ma, soprattutto dopo il Covid, sono saltati tutti gli schemi. Tutti presentano i film dappertutto. Non c’è selezione a monte. Cannes e Venezia sono diventate le due mostre più importanti del mondo. Passare sui nostri schermi significa pubblicità, contratti, visibilità. Quest’anno abbiamo visionato 4.200 opere. Siamo in 15 ma è una bella fatica. Abbiamo affittato una sala al cinema Anteo di Milano. E non basta. È appena finita l’edizione 2024. Il tempo di tornare a casa, disfare le valigie e squilla il telefono: “Vorremmo proporti un film per l’edizione 2025”». È difficile dire di no? «Soprattutto con gli amici. Ho detto di no una volta a George Clooney. Devo dire che ha capito. Altri invece insistono: “Ma come? Tante persone che lo hanno visto sono state entusiaste” e via dicendo».
L’inferno è probabilmente nella vita privata. Hai detto: «La mia classifica di vita è cinema, donne e politica». Del cinema abbiamo parlato, della politica anche... «Le donne? Ho fatto un casino. Ho avuto tre mogli. Persone di cui sono stato innamorato, con cui abbiamo fatto importanti tratti di strada insieme. Con la seconda siamo stati insieme 17 anni. Abbiamo due figli ormai grandi». Chi ha smesso? «Lei. Aveva ragione. Non ero un modello di fedeltà. Alla fine, giustamente, si è stufata». E con Giulia? «Ho passato un anno con i sensi di colpa. Quando l’ho conosciuta lei aveva 27 anni e io 64. Suo padre è più giovane di me. Mi chiedevo se facevo bene. Mi ha convinto lei e siamo felici. Abbiamo una bambina di tre anni e sta arrivando un altro figlio a dicembre. Insomma ho quattro figli, posso dire di aver dato il mio contributo contro la denatalità». Una vita intensissima. «Oggi la mia classifica di priorità è cambiata: prima c’è mia moglie poi il cinema. La politica la seguo ma mi arrabbio ogni giorno di più». Mai avuto relazioni con attrici? «Ti sembrerà strano, no. Io in fondo sono abbastanza timido». Non sembrerebbe... «Invece è così. Fa parte del mio carattere. In ogni caso con attrici mai». Un diabetico in pasticceria.