Corriere della Sera, 15 settembre 2024
Di depressione esistono almeno sei tipi
Si sta iniziando a comprendere meglio che sia la depressione sia l’ansia possono essere sostenute da differenti configurazioni di attivazione cerebrale, e si inizia anche a capire che queste differenze potrebbero aiutare a spiegare perché alcune di queste forme rispondono bene al trattamento farmacologico oppure a quello psicoterapico, mentre altre forme rispondono meno o per nulla.
È, questa, un’importante area grigia della psichiatria, dal momento che si stima che circa il 30-40 per cento di coloro che soffrono di depressione non trae attualmente giovamento dalle terapie.
Una nuova luce su questo problema arriva adesso da una ricerca che è stata pubblicata sulla rivista scientifica Nature Medicine.
Lo studio in questione indica che è possibile individuare almeno sei differenti tipi di depressione, definiti «biotipi», a seconda di diversi pattern (modalità) di attivazione oppure non attivazione di specifici circuiti cerebrali.
A ogni tipo di depressione corrisponde un vero e proprio biotipo, vale a dire un insieme di caratteristiche di funzionamento cerebrale distintive. Per esempio, è stato possibile individuare una forma di depressione nella quale sono presenti specifiche modalità di attivazione dei circuiti cerebrali frontoparietali, che sono quelli responsabili del nostro livello di attenzione, oppure del cosiddetto Default Mode Network, vale a dire il circuito nervoso che si attiva quando il cervello non sta effettuando compiti specifici, oppure ancora delle regioni sottocorticali stimolate da compiti emozionalmente significativi.
A individuare specifici tipi di depressione e ansia è giunto un gruppo di ricercatori guidato da Leonardo Tozzi, neuroscienziato italiano che lavora presso il Department of Psychiatry and Behavioral Sciences della Stanford University School of Medicine di Stanford, in California, dove dirige il Computational Neuroscience & Neuroimaging Program dello Stanford Center for Precision Mental Health and Wellness. Leonardo Tozzi ha risposto ad alcune domande poste dal Corriere Salute per spiegare in dettaglio come si è giunti a questo risultato e quali sono le possibili ricadute sulla conoscenza e sul trattamento di disturbi depressivi e ansiosi.
«I sei diversi biotipi di depressione sono stati individuati mettendo in campo indagini effettuate con tecniche di visualizzazione del cervello. «Per dare un nome a questi biotipi abbiamo usato due strategie» dice Tozzi. «Prima di tutto abbiamo assegnato un nome a ogni biotipo composto da lettere e simboli che denotan0 le precise differenze cerebrali fra il biotipo e un gruppo di controlli sani. Questo per dare a ogni biotipo un nome non ambiguo che identifica chiaramente queste differenze nella funzione cerebrale. Ma oltre alla nomenclatura scientifica, abbiamo assegnato a ogni biotipo anche un nome descrittivo più idoneo a essere comunicato anche al di fuori della cerchia degli specialisti».
Lo studio pubblicato su Nature Medicine è stato condotto su un campione di 801 pazienti affetti da depressione, alcuni dei quali avevano anche sintomi di ansia.
«Una parte di questi pazienti, 250 persone, ha ricevuto diversi trattamenti, così abbiamo potuto valutare come i loro sintomi si sono modificati dopo la cura» illustra Tozzi. «Questo campione è il risultato di un’aggregazione retrospettiva di dati precedentemente raccolti in quattro studi condotti nel corso degli anni. Siccome in tutti e quattro gli studi avevamo raccolto gli stessi dati di neuroimmagini, questionari e test cognitivi, è stato possibile aggregare questi quattro campioni nell’unico grande campione che abbiamo utilizzato nell’articolo. Senza entrare in dettagli troppo tecnici, possiamo dire che nel corso di questi studi i pazienti sono stati trattati con diversi tipi di antidepressivi, come escitalopram, sertralina e venlafaxina, oppure con un trattamento psicoterapico specificamente sviluppato per loro, oppure ancora con il trattamento usato nella pratica clinica corrente. I risultati hanno mostrato che il biotipo Default with salience and attention hyperconnectivity risponde meglio alla psicoterapia, il biotipo Attention hypoconnectivity risponde peggio alla psicoterapia, e il biotipo Cognitive control hyperactivation risponde meglio alla venlafaxina».
I risultati di questo studio potranno fornire indicazioni per un trattamento più personalizzato di depressione e ansia. L’obiettivo sarebbe riuscire a contenere il fenomeno delle persone che non rispondono alla terapia psicofarmacologica o psicoterapica e a orientare i medici in maniera più precisa verso la scelta di una di queste due forme di terapia. «In seguito a questo studio, il nostro Centro, diretto da Leanne Williams, sta ora avviando trial clinici sperimentali e prospettici volti a testare terapie che hanno come bersaglio le caratteristiche cerebrali specifiche per ogni biotipo. L’ipotesi è che, assegnando ogni paziente a una terapia che ha come bersaglio l’anomalia cerebrale del suo biotipo, si possa ottenere una risposta clinica migliore. Il nostro studio, essendo osservazionale e retrospettivo ha potuto solo dimostrare l’esistenza di una correlazione fra pattern di attività cerebrale e risposta clinica, per cui questi studi clinici randomizzati che sono in corso di progettazione e realizzazione saranno un passaggio fondamentale per dimostrare in modo rigoroso che questi biotipi sono promettenti per la pratica clinica. Per quanto riguarda la scelta tra psicofarmacoterapia e psicoterapia, ritengo che essa dipenda anche da altri fattori, per esempio dalla disponibilità del trattamento, dalla presenza di sintomi specifici, dalla storia di ogni singolo paziente e ovviamente dalle sue preferenze personali. Tuttavia, penso che in futuro le misure biologiche che abbiamo messo in evidenza potrebbero diventare uno strumento utile per il medico e per il paziente, al fine di arrivare a una decisione, in aggiunta agli strumenti che già si usano. In questo momento, in psichiatria, l’uso di dati biologici quantitativi è completamente assente, a differenza di altre branche della medicina. Personalmente ritengo che questi dati, integrati con quelli provenienti da altre fonti, potranno portare a un grande cambiamento nella pratica psichiatrica e contribuire a risolvere alcuni quei casi nei quali non si riesce ad arrivare a una decisione sufficientemente motivata».
L’importanza di ricerche come questa è indicata anche da dati epidemiologici. Il disturbo depressivo maggiore è un vero e proprio problema di salute pubblica. L’esperienza soggettiva della depressione altera le emozioni, la percezione del proprio corpo, di sé stessi, dello scorrere del tempo. Da un punto di vista dei suoi effetti economici e sociali rappresenta il disturbo più importante per il suo effetto sulla produttività lavorativa. Solo negli Stati Uniti, la disabilità dovuta alla depressione ha un costo di 336 miliardi di dollari.
Il carico indotto dalla depressione ha il suo impatto maggiore sui giovani, con conseguenze che spesso sono fatali, considerando che tra di essi i suicidi sono triplicati negli ultimi trent’anni.