Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  settembre 14 Sabato calendario

Intervista a Norma Gimondi. Parla di Felice, suo padre

Correva il 2 ottobre del 2017 e sulla salita del Castello di Brolio, lungo i polverosi e meravigliosi sterrati de L’Eroica, la più celebre corsa ciclistica d’epoca del mondo, serpeggiava stupore tra i partecipanti in sella a bici d’epoca con body in lanetta e scarpe di cuoio: fisico asciutto, polpaccio tornito, un uomo con la faccia di Felice Gimondi, sulla bici con cui Felice Gimondi vinse il Giro d’Italia 1976 e con la maglia iridata che lo stesso Gimondi conquistò a Barcellona nel 1973 si faceva largo con pedalate potenti per conquistare posizioni di avanguardia.
Norma Gimondi, chi era quell’uomo?
«Era mio padre. Aveva appena compiuto 75 anni, pedalava al mio fianco su una delle bici con cui aveva vinto Giro, Tour, Vuelta, tre delle cinque classiche-monumento, un Mondiale e cento altre corse. L’aveva recuperata in cantina e portata dal meccanico: voleva tornare corridore per un giorno».
Come andò l’Eroica?
«Gimondi sembrava un ragazzo alla vigilia della prima gara. La sera prima sistemò il numero sulla maglia e preparò la borsa con grande cura. Partì a razzo sgomitando tanto che mi misi davanti a lui per rallentarlo. Verso la fine – forse per stanchezza – finì lungo in una curva. Mi guardò dicendomi: “Ripartiamo”. Ma si era rotto una clavicola. Siamo saliti sul carro scopa e poi in macchina verso Bergamo con lui cupo che pronunciò una sola frase: “Sono troppo vecchio per pedalare”».
Un addio.
«Macché. Arrivati a casa ordinò: “Chiama il Brocci, l’organizzatore dell’Eroica, e digli di iscrivermi per il prossimo anno. Gimondi non si ritira mai”».
Quando ha capito che il suo era un padre speciale?
«Alle Elementari. Raro che venisse a prendermi perché lavorava lontano da casa, ma quando papà arrivava una folla di bambini e genitori gli saltavano addosso. Pensavo fosse perché regalava adesivi, cartoline e cappellini. Quelli avanzati li distribuivo io con orgoglio ai compagni».
Quando ha realizzato che papà era Felice Gimondi?
«Ero al liceo, papà si era ritirato da qualche anno e mi portò al Giro d’Italia per non so quale premiazione. Parcheggiata la macchina, percorremmo 300 metri a piedi con il pubblico in delirio che lo chiamava per nome facendo vibrare le transenne. Mi vennero i brividi e capii che il mio non era un papà normale, ma un uomo amatissimo che aveva fatto qualcosa di grande».
Cinquantaquattro anni, avvocato, membro della Giunta del Coni, Norma Gimondi con mamma Tiziana e la sorella Federica raccoglie l’eredità di papà Felice, scomparso cinque anni fa, gigante dello sport italiano. A fine di una lunghissima carriera, Gimondi è stato assicuratore e immobiliarista di grande successo e tra gli artefici del successo della mountain bike in Italia.
Norma, chi era suo padre?
«Il figlio di Mosè, camionista, e Angela Salvi, postina comunale a Sedrina, il paesino della Val Brembana da cui la sua storia non può essere separata. Solo così si possono capire timidezza, integrità e valori morali dell’uomo. I genitori erano le fondamenta di una comunità povera dove si viveva nella solidarietà assoluta. Quando cominciò a correre, se c’era la fettina di carne la mangiava lui. A tavola le trote pescate nel Brembo venivano appese a un filo per dare aroma alla polenta e solo a lui toccava la polpa. Quando vinse il Tour de France, papà regalò un appartamento ciascuno ai genitori e ai due fratelli per ringraziarli dei sacrifici che avevano fatto».
Cominciò a correre e vincere giovanissimo.
«Anche questo faceva parte del mito di Sedrina. A metà anni Cinquanta non c’erano telefoni in paese e a portare notizie dei suoi successi la domenica arrivavano le staffette in moto. La Sedrinese, la sua prima squadra, l’aveva fondata proprio nonno Mosè».
Giovanissimo incontrò Tiziana Bersano.
«Un amore puro, un matrimonio e una favola durati cinquant’anni. Si conobbero in Liguria grazie a Vittorio Adorni che frequentava il nonno di mamma, albergatore in Riviera dove le squadre svernavano. Felice 22 anni, mai visto il mare in vita sua, timidezza da montanaro che gli impediva di spiccicare parola, mamma sedici anni ancora non compiuti. Mai più lasciati, mai un litigio o uno sgarbo. Fino all’ultimo giorno papà aprì a mamma la porta della macchina e di casa».
Il grande Vittorio Adorni fu complice.
«Per rompere il ghiaccio Vittorio, amico, capitano e direi fratello maggiore di papà, organizzò una serata di gruppo al cinema per poi lasciarli soli. Erano tempi diversi: si sposarono appena lei fu maggiorenne e ogni anno, come tutte le mogli dei corridori, mamma riceveva una lettera dal leggendario direttore sportivo Luciano Pezzi che spiegava garbatamente di stare alla larga dai ritiri di allenamento e dalle gare dei mariti per non deconcentrarli».
Difficile separare la figura di Felice da quella di Merckx.
«Impossibile. Mamma quando si parlava di lui diceva a papà “quel tuo marito Eddy”. Mettendo da parte rivalità e contabilità delle vittorie, avevano un rapporto profondissimo. Di Eddy papà ammirava non solo la classe immensa (“È più forte di me e di tutti” diceva) ma anche il fatto che non si risparmiasse mai».
A fine carriera Felice non si sedette sugli allori.
«Papà decise che avrebbe mantenuto viva la passione per il ciclismo collaborando con Bianchi, marchio che amava, ma inventandosi anche un nuovo lavoro. Seguì le orme di Adorni, fece il corso per diventare agente assicurativo. Lo ricordo con la valigetta in mano a caccia di clienti in tutti i rami possibili. Creò una grande agenzia della Milano a Bergamo, che ora segue mia sorella Federica, e un’immobiliare. Era professionale, competitivo, preparatissimo come quando correva».
Che papà era Gimondi?
«Affettuoso, attento ma senza sconti. Il suo motto era: “Nella mia vita mi sono ritirato dalle corse una sola volta perché stavo malissimo e ancora me ne pento”. Voleva fossimo come lui, pronte a superare ogni ostacolo senza mai tirarci indietro».
Davvero si ritirò una sola volta?
«Credo tre o quattro. Ma non ho mai avuto il coraggio di approfondire. Papà aveva il pallino della dignità, per lui nella vita quello era il faro. Comportarsi bene, meritarsi il successo, l’affetto e anche il cibo che arrivava in tavola».
Gimondi è stato presidente della Mercatone Uno di Pantani.
«Quando morì Marco papà pianse. Ne riconosceva classe e fragilità immense, voleva trattarlo da collega e non da padre. Ma comunicavano a fatica e nei momenti critici il clan di Pantani lo tenne lontano. Si dimise per dignità».
Erano anni difficili.
«Nel famoso blitz dei Nas a Sanremo al Giro d’Italia del 2001 i carabinieri perquisirono anche la sua borsa e la sua macchina. Tornò a casa sconvolto, non riconosceva più quel mondo».
A fine anni Ottanta Gimondi convinse la Bianchi a costruire mountain bike.
«Era stato a una fiera in America da cui tornò entusiasta. Aveva capito che il fuoristrada era libertà dal traffico e dai pericoli. Comprò una Mtb per lui e una per me e mi portò in escursione in un bosco vicino a casa: ci perdemmo per ore tra i sentieri ma fu bellissimo».
C’è qualcosa di tragico ma anche di romantico nella morte di suo padre, nel mare di Giardini Naxos il 16 agosto 2019.
«Papà si è come addormentato in acqua per un arresto cardiaco durante l’ultimo bagno del suo ultimo giorno di vacanza. Non ha sofferto, dicono i medici. Mamma era al suo fianco, come sempre, e davanti c’era il mare come quando si erano conosciuti. Gimondi era terrorizzato dall’idea di morire senza dignità, mi aveva ordinato di portarlo in Svizzera se non fosse più stato in grado di decidere e sopportare il dolore. L’idea mi sconvolgeva. Ma non ce n’è stato bisogno, come sempre ha pensato a tutto lui».