Corriere della Sera, 15 settembre 2024
Caso Open Arms, per Giorgia Meloni i giudici sono fuori strada: l’interpretazione delle norme non può valere più delle norme stesse
Salvini viene informato in anticipo dai suoi avvocati. Chiama Giorgia Meloni e le racconta cosa sta per essere pubblicato dalle agenzie di stampa. Sei anni di carcere per come ha svolto il suo mandato politico, in un governo che non era quello attuale, ma era pur sempre un governo, con regole e leggi precise, che l’allora ministro dell’Interno ritiene di aver rispettato e applicato alla lettera. Regole e leggi, disposizioni e regolamenti, interni e internazionali, che hanno anche una caratura politica, ma che sono ancorati ad una catena di comando istituzionale.
Siamo al primo pomeriggio di ieri, poco dopo l’ora di pranzo. Meloni ascolta e ritiene inaudito quello che apprende. Sei anni di carcere per una diversa valutazione o interpretazione di leggi e regolamenti, che allora come oggi sono osservate non solo dal governo in carica, ma anche da tutte le strutture istituzionali sottoposte, dalla Guardia Costiera alla polizia di frontiera. Qualsiasi genere di dissapore, o di distanza, con Salvini, per Giorgia Meloni evapora in pochi minuti.
La lotta all’immigrazione illegale, al sistema delle Ong che per questo governo ha sempre svolto il ruolo di una sorta di pull factor, un fattore di attrazione dei traffici illegali, è uno dei tratti costitutivi, programmatici, sin dal primo giorno di insediamento in carica, sin dalla campagna elettorale, per Meloni. Che una volta al governo ha discusso e stretto accordi con la Gran Bretagna, sulla falsariga del profilo politico che Salvini ha sempre adottato. Che ha siglato un accordo, ancorché criticato, con l’Albania. Che non ha mai fatto mistero di considerare quello delle Ong un lavoro doveroso ma anche ambiguo, perché a suo giudizio è parte di una catena di montaggio illegale che a monte ha i trafficanti libici, il lassismo di alcune autorità italiane, la consapevolezza e «il comodismo degli spagnoli e dei maltesi e dei francesi» nel chiudere i loro porti quando alcune norme del diritto internazionale autorizzano l’Italia a chiedere e pretendere che anche altri Stati si facciano carico, anche loro, del traffico di clandestini nel canale di Sicilia. Le virgolette sono quelle che si ascoltano a Palazzo Chigi, e che accompagnano la nota della premier a difesa del vicepremier.
Per Giorgia Meloni è come se i magistrati le avessero alzato la palla, è un flashback sui presunti attacchi giudiziari contro Berlusconi, che per anni è stato anche una sua figura di riferimento, è una conferma della necessità di una riforma della giustizia in cui i pubblici ministeri svolgano un ruolo più istituzionale e meno politico, «perché il tempo in cui le leggi si interpretano a seconda del colore politico delle toghe è finito»: per Meloni non si tratta di incidere sul sacrosanto principio della separazione dei poteri, ma sull’uso che di queste regole di primo grado e anche costituzionali, «da decenni», fanno alcuni magistrati, convinti che «un’interpretazione di norme può avere maggior valore delle norme stesse».
Anche questi sentimenti, queste convinzioni, si raccolgono nello staff della premier quando a caldo, pochi minuti dopo che le agenzie di stampa hanno battuto la notizia delle richieste dei magistrati di Palermo per Salvini, viene diffusa da Palazzo Chigi la sua durissima reazione, in cui dà appoggio incondizionato al suo vicepremier. «I magistrati di questo Paese devono capire una volta per tutte che esiste una differenza fra funzione legislativa e giudiziaria», si ascolta ancora nel suo staff, che avrebbe anche condiviso una nota più dura, nonostante le reazioni agguerrite delle opposizioni.