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 2024  settembre 14 Sabato calendario

I cent’anni della Nona di Beethoven

Vienna, 7 maggio 1824, teatro di Porta Carinzia, Ludwig Van Beethoven ha appena finito di dirigere la sua Nona sinfonia in Re minore opus 125 nonostante la totale sordità gli consenta di percepire solo le vibrazioni dei registri bassi. In realtà ha diretto solo in parte, lo ha aiutato a tenere bene o male il tempo con l’orchestra, il maestro Michael Umlauf. Il grande compositore è tornato sul podio, di fronte alla più grande orchestra mai messa insieme, dopo dodici anni d’assenza, ha poco più di cinquant’anni gliene restano da vivere soltanto tre. Il successo è immediato, il pubblico è in piedi in uno sventolio di fazzoletti e cappelli, poiché il compositore sta ancora guardando verso i musicisti dell’orchestra il mezzosoprano Caroline Unger gli si avvicina, lo gira verso il pubblico. Non può sentire le grida, vede però quel turbinio di braccia levate, l’evidente giubilo di tante persone in piedi che lo acclamano e che per cinque volte lo costringono a tornare sul palco a ringraziare. Il messaggio è passato.
Quale messaggio? Non è la prima volta che un brano sinfonico viene accompagnato dalle voci umane; è però la prima volta che un testo poetico, che in questo caso conclude la composizione, abbia una tale ricchezza di significato. È un’ode alla Gioia del poeta romantico (ma anche pensatore e drammaturgo) Friedrich von Schiller. Bisogna porre mente alla data. Nel 1824 Napoleone è morto da tre anni, l’Europa (Italia compresa) è nel pieno di quel periodo che chiamiamo Restaurazione. Sono tornati sul trono i vecchi sovrani, le aperture libertarie che, tra molte contraddizioni, il periodo napoleonico aveva inaugurato o fatto intravedere, tendono tutte ad essere cancellate. In questo contesto le parole dell’Ode schilleriana acquistano un evidente significato politico, anzi rivoluzionario. L’Ode descrive l’ideale tipicamente romantico di una società di uomini legati tra loro addirittura da vincoli di fratellanza. È esagerato dire che aprano verso gli ideali socialisti dell’Ottocento maturo, sicuramente però trapela dai versi un forte ideale egualitario. Tutti gli uomini saranno fratelli (Alle Menschen werden Brüden) dice uno dei versi. Si va ancora più in là delle parole iniziali della Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti (1776) “All Men are created equal”, tutti gli uomini sono creati uguali. Erano questi gli ideali che si contrapponevano alla Restaurazione, Beethoven era pronto a coglierli.
In un’altra parte dell’Ode Schiller scrive: “Abbracciateci moltitudini (Seid umschlungen, Millionen) questo bacio vada al monto intero”. O ancora: “I mendichi diventano fratelli dei principi dove la tua ala soave freme”. Raccolgo un suggerimento del maestro Michele Dall’Ongaro (presidente dell’Accademia di Santa Cecilia) che ha individuato un ulteriore messaggio di fratellanza nella piccola marcia alla turca che fa la sua comparsa nel quarto movimento. I turchi avevano cinto d’assedio la capitale austriaca nel 1683, erano rimasti nella memoria dei viennesi come il nemico per eccellenza. Nemici della città, dell’impero, della civiltà cristiana. Inserire una marcia strumentata alla turca in quel contesto è un ulteriore cenno di pacificazione che il sommo compostore si concede.
In quel 1824, Beethoven è un uomo provato nella salute e negli affetti. I suoi malanni col passare del tempo si sono aggravati. Non è solo questione della sordità, di per sé un grave handicap per un musicista; è anche afflitto da seri disturbi agli occhi e da problemi intestinali che lo costringono a umilianti interruzioni del suo lavoro.
Il figlio del compositore Carl Maria von Weber riferì che suo padre aveva trovato il maestro: «in una tetra, quasi sordida stanza». Sparsi sul pavimento c’erano fogli di musica, soldi, vestiti, sopra il letto era ammucchiata della biancheria sudicia, il pianoforte era ricoperto da uno spesso strato di polvere. Un suo ritratto verbale lo descrive in questi termini: «Folti i capelli, grigi, irti, quasi bianchi in certi punti, la fronte e il cranio straordinariamente ampi e arrotondati… Un cupo rossore gli coloriva il largo volto pustoloso; sotto le sopracciglia fitte e torvamente aggrottate, due occhietti brillanti fissavano con benevolenza i visitatori».
La composizione della Nona aveva impegnato il maestro per buona parte del 1823. Era venuta finalmente a compimento l’idea lungamente coltivata di unire il canto alla musica strumentale, un vecchio sogno che in parte aveva già provato a realizzare, per esempio nel 1808 con la Fantasia per soli coro e orchestra opus 80. Erano passati circa dieci anni dalla composizione della sinfonia precedente, l‘Ottava, della quale – a volerne riassumere in due parole il clima di fondo – si potrebbe dire che esprime soprattutto una cordiale gioia di vivere. Tutt’altra, come tutti sanno, l’atmosfera della Nona, anche se la parola ‘gioia’ curiosamente ritorna. Non della stessa ‘gioia’, però, si tratta; quella dell’Ottava è semplice, quasi rustica, una gioia paesana; nella Nona diventa una gioia complessa, drammatica, lanciata verso l’utopia.
Non è soltanto questione di atmosfera, i dieci anni trascorsi tra la penultima e l’ultima sinfonia sono anche quelli in cui il maestro compie un salto compositivo e stilistico così vertiginoso che qualcuno è arrivato a parlare di un ‘terzo stile’ beethoveniano, a partire da quella data. Gli appunti presi nel corso degli anni, qualche tema annotato su un taccuino – per esempio un embrione di fuga dove si riconosce quella del secondo movimento – trovarono finalmente il punto di coagulo per cui l’anno 1823 fu dedicato quasi per intero alla stesura dei primi tre tempi. L’occasione, potremmo dire il pretesto, era stato extramusicale. Nel dicembre del 1822 la londinese Philarmonic Society aveva commissionato al musicista una nuova sinfonia. Beethoven aveva accettato l’offerta con entusiasmo, compreso l’impegno – rafforzato da un anticipo di cinquanta sterline – di fare a Londra la prima esecuzione pubblica. In realtà l’impegno non venne rispettato, come spesso gli accadeva, e la Nona vide per così dire la luce – dopo numerose incertezze – la sera dei quel 7 maggio.
Solo alcuni storici della musica sono oggi in grado di valutare quale dovette essere l’impatto della monumentale sinfonia (70 minuti circa di musica) sugli ascoltatori del tempo. Due secoli fa non c’era altra fonte musicale che non fosse quella dal vivo, strimpellata da un organetto o eseguita da un’orchestra. Noi oggi viviamo circondati, quasi sommersi dalla musica, bella o brutta che sia, spesso dovendola subire passivamente senza davvero ascoltarla. Tonalità e accordi hanno molto attutito il loro significato per l’orecchio dell’ascoltatore medio. Questo enorme cambiamento ha trasformato il canone d’ascolto, per conseguenza reso più difficile (più aleatorio) il giudizio. Per di più la Nona sinfonia ha sofferto non poco della sua stessa popolarità. Come disse Claude Debussy la Nona ha finito per condividere il destino di Monna Lisa il cui sorriso è finito perfino sulle scatole dei biscotti. Il tema dell’Inno alla Gioia, arrangiato da von Karajan (1972), è diventato l’Inno dell’Europa unita; scelta sicuramente felice ma che certo non ha giovato al significato originario della sinfonia come Beethoven l’aveva immaginata e scritta.
Ci sono gli ideali dell’illuminismo nei versetti del poeta che Beethoven ha fatto suoi; c’è il sogno della pace universale di Kant sia nella poesia sia nella potente musica che la sublima.
Emerge dalle parole e risuona nelle note il ritratto dell’eroe – quello stesso che Beethoven ha accompagnato al sepolcro con la celebre marcia funebre nel secondo movimento della sua Terza Sinfonia (“Eroica”). L’eroe beethoveniano è l’essere umano capace di affrontare gli eventi, le avversità i contrasti, con dignità e coraggio. Con piena coscienza si può affermare che questo ritratto si applica in primo luogo a Beethoven stesso: afflitto dal male, privato del senso dell’udito, dopo una vita piena di difficoltà, ebbe il coraggio di cantare niente meno che la Gioia. Non in particolare la sua, ma quella del genere umano (Alle Menschen), perduto in uno slancio di generosa, quasi folle, utopia.