Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  settembre 13 Venerdì calendario

Intervista a Giorgio Fornoni

Il ragionier Giorgio Fornoni, 77 anni, da Ardesio (Bergamo), ha la fissa degli scoop, ma, abituato a maneggiare la calcolatrice, non ama far conto sui cronisti, quindi da mezzo secolo li produce in proprio. Confessò il Dalai Lama in esilio a Dharamsala. Intervistò («fui il primo italiano a riuscirci») la giornalista Anna Politkovskaja, la giornalista che criticava Vladimir Putin, assassinata nel 2006 a Mosca. Scovò il subcomandante Marcos nel Chiapas. Interrogò il tagliagole Ramzam Kadyrov in Cecenia. Convinse a parlare Jonas Savimbi, leader marxista della guerra civile in Angola; Laurent Nkunda, generale indagato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra in Congo; Issa Sesay, capo del Fronte unito rivoluzionario in Sierra Leone; Victor-Ben Ebikabowei, comandante dei guerriglieri nel Delta del Niger. Girò con Dominique Lapierre le bidonville in India, descritte nel romanzo La città della gioia. Al paese lo prendevano per matto. Poi fu scoperto da Milena Gabanelli, che gli dedicò una puntata di Report. Da allora i suoi 200 reportage hanno avuto un vasto pubblico su Rai 3 e Tv2000.
Anche se l’amico Gino Strada lo chiamava Mefisto, per via della somiglianza con il demoniaco personaggio di Tex («la barba mi spunta solo sul mento, i capelli non li taglio dai tempi dei Beatles, quando suonavo la batteria»), Fornoni è una pasta d’uomo che ha battuto in lungo e in largo 160 Paesi con un nobilissimo scopo: «Non riesco a immaginarmi lontano da chi soffre. È come se mi fossi caricato una gerla sulle spalle. Ogni nuovo viaggio è un peso che ci metto dentro».
Sembrerebbe quasi masochismo.
«Irrequietezza esistenziale. Per Federico García Lorca siamo incamminati su una strada che non c’è. Sono un viandante della vita. Un giorno mi fermerò».
Per il momento va avanti.
«Quando sono qui, devo scappare via. Quando sono via, devo tornare ad Ardesio, la mia stalla. Ho una moglie che non sapeva neppure dove andavo, stavo all’estero sei mesi l’anno. Soffriva troppo. Dal 1992 vive in un’altra casa, ma non siamo separati. Fra noi c’è un accordo: se mi capitasse qualcosa, sa che deve lasciarmi per sempre nel luogo in cui mi trovo».
Teme di fare la fine di Enzo Baldoni?
«Ci andai vicino nel 1982. India, volo da Nuova Delhi ad Amritsar, la città santa dei Sikh. “Signori, c’è un dirottatore con una bomba a mano nella cabina di pilotaggio, mantenete la calma”, annunciò la hostess. Atterrammo a Lahore in Pakistan. Poi ad Amritsar. Il terrorista liberò le donne e i bambini, in seguito gli uomini. Ma trattenne 10 ostaggi: ero fra loro. Non ebbi la forza di pregare, mi pareva sbagliato farlo solo per la paura di morire. Pensai a mio papà, un muratore che mi mandò a studiare dai comboniani, ad Angolo Terme. Le signore Marinetti, che erano le benestanti di Ardesio, mi fecero la dote, come si usava per le spose: canottiere, mutande, lenzuola, asciugamani. Di mio non avevo niente».
Suo padre intercedé: è ancora vivo.
«Ricapitò in Congo. Ci andai la prima volta per documentare lo sfruttamento degli schiavi nelle miniere di coltan, un minerale prezioso senza il quale non si potrebbero produrre i nostri telefonini. Devono portare a valle sacchi da 50 chili, due giorni e due notti di fatiche immani. Sono attesi dagli aerei di mercenari russi che atterrano in piste aperte nella foresta. Trafficanti armati volevano usarmi come corriere per far uscire dal Paese oro e diamanti grezzi».
Ho capito: non ha paura della morte.
«L’ho sempre messa in preventivo, soprattutto dopo la tragica fine dei miei carissimi amici Maria Grazia Cutuli, Raffaele Ciriello, Andrej Mironov, Andrea Rocchelli. Temo di più la tortura».
Le malattie no?
«A quelle non ci pensi, te le prendi e basta. Ho avuto due volte la malaria, in Sudan e in Madagascar. Un parassita mi è penetrato sottocute in Vietnam e ha scavato fino all’osso della gamba. Il morso di un ragno in Sierra Leone mi ha innescato una malattia autoimmune».
Come si chiama?
«Il ragno? Mai saputo. Dormivo nell’amaca. Mi svegliarono le bambine soldatesse, le rapivano a 7 anni per addestrarle a uccidere. Una venne a implorarmi con un bimbo al collo: “Portalo via con te”. Mi alzai e il ragno entrò nell’amaca».
Come si chiama il morbo, intendevo.
«Crioglobulinemia. Colpisce i vasi sanguigni. Eliseo Minola, medico di Bergamo specialista in malattie infettive e tropicali, mi ha detto: “È come se in una casa di quattro piani si fossero bruciati i tre più alti. Ti resta solo il pianterreno”».
Ricorda il suo primo viaggio?
«Quello di nozze. Prima non ero mai andato più a est di Cervignano del Friuli e più a sud di Assisi. Nel 1974 raggiunsi i curdi del Pkk in Turchia. Lì conobbi un archeologo armeno, un uomo eccezionale, Sueli. Significa “colui che viene dalla luce”. Ho dato il suo nome al mio unico figlio, laureato in economia e commercio, che è diventato prete a 40 anni. Ora ne ha 41. Me lo annunciò così: “Voglio spendere la mia vita per gli altri”».
Ha preso da lei.
Ho la crioglobulinemia per colpa
di un ragno. Con mia moglie c’è
un patto: se mi succede qualcosa,
deve lasciarmi dove mi trovo
«Mah, non lo so... Io sono finito dentro un imbuto e non riesco a uscirne. Di ritorno dalla prima linea, ripartivo per altri viaggi, pensavo che mi avrebbero guarito l’anima. Sono andato nel deserto di Atacama in Cile, ho disceso il Rio delle Amazzoni e il Mekong, ho scalato l’Himalaya, ho attraversato lo Stretto di Bering. Niente, è stato tutto inutile».
La sofferenza le resta appiccicata.
«Come puoi dimenticare un reportage sulla pena di morte durato un anno e mezzo? Il 19 maggio 2005 vidi giustiziare Richard Cartwright, 31 anni, nel carcere di Huntsville, in Texas. Aveva ucciso per rapina un uomo di 37. Steso sul lettino, le braccia divaricate strette dalle cinghie, mi sembrò un Cristo in croce. Un microfono gli pendeva davanti alla bocca. “Ha qualcosa da dire?”, chiese il boia dall’interfono. “No. Sono pronto”, rispose. Che orrore quei veleni iniettati in vena: prima il pentothal che anestetizza, poi il pancuronio che paralizza la respirazione, infine il cloruro di potassio che ferma il cuore. Il corpo viene scosso da fremiti, sono 15 minuti di agonia».
Ha indagato sulle esecuzioni capitali solo negli Stati Uniti?
«Anche in Cina e in Iran. I cinesi uccidono con un colpo alla nuca e i familiari del condannato devono pagare il costo del proiettile. Ma filmai anche 18 furgoni dell’Iveco adattati a camere della morte: l’iniezione letale si pratica fuori dal tribunale, subito dopo la sentenza, per guadagnare tempo: ai giustiziati espiantano gli organi. Per gli iraniani l’impiccagione è uno spettacolo deterrente. Si viene appesi a una gru. Tutti devono vedere».
Ha seguito parecchi conflitti armati.
«Perché la guerra? Non so darmi risposta. Andai due volte in Eritrea per raccontare quella con l’Etiopia, ignorata dai media. A Tzorona trovai 15.000 cadaveri insepolti. Mani aggrappate al vuoto, un fetore insopportabile. Continuavano ad arrivare legioni di soldati eritrei, giovanissimi, anche tante ragazze. Non sorridevano mai. Nessuno gli aveva spiegato perché dovevano ammazzare gli etiopi. Gli dicevano solo: andate là e fate la guerra. E loro la facevano. Che senso ha?».
Come riusciva a raggiungere il fronte?
«Presentavo un cartoncino plastificato di 6 centimetri per 10 con la scritta “Press”, la mia foto e la sigla Unpf, cioè United Nations peace forces. Tessera numero 11.197. Me la feci rilasciare in Bosnia, sotto le bombe. Convinsi i caschi blu che ero l’inviato speciale dell’Apostolo di Maria, mensile dei monfortani. Dal 2005 sono giornalista pubblicista».
Ma lei è ragioniere commercialista.
«Il mio studio lo mandavano avanti due collaboratori molto bravi e molto ben pagati. Penso che fossero più contenti nei sei mesi in cui ero in viaggio».
Quanto le è costata questa passione?
«Devo proprio dirlo? Qualche milione di euro. Solo per l’inchiesta sulla pena di morte spesi 120.000 euro: cinque volte negli Usa, due in Cina, due in Russia, una in Iran, una in Malawi, una nello Zambia. Per avvicinare i condannati a morte nel carcere di massima sicurezza di San Pietroburgo, alloggiato in un ex monastero, pagai al cappellano, un pope, il restauro della chiesa. Dovetti sganciare soldi anche per entrare nel sito russo di Murmansk dove vengono smantellati i sommergibili a testata nucleare. Uno scandalo infinito».
In che senso?
«I sovietici ne costruirono 240 durante la guerra fredda. Vladimir Putin convinse il G8 che il costo per distruggerne 150 doveva essere pagato dall’Occidente, essendo un problema planetario. In realtà ne ha venduti alcuni all’India e ne ha prodotti altri. Quelli dismessi finiscono a Majak, la pattumiera nucleare del mondo. La Francia ci ha spedito le scorie radioattive delle centrali atomiche messe fuori uso in Italia. È una città chiusa, anche lì ho sborsato quattrini per entrarvi».
Ora mi spiego i milioni di euro spesi.
«Che altro potevo fare per portarmi a casa le immagini dei contenitori con le barre di plutonio nella città chiusa di Severodvinsk? O per arrivare nella penisola dei Ciukci, nella base russa che ospita un arsenale di armi convenzionali da far paura? Siccome Putin deve smantellare pure quello, sparano i missili contro la montagna. Pum, pum, pum, dalla mattina alla sera, 15.000 a settimana».
Queste erano inchieste da giornalisti, non da ragionieri commercialisti.
«Ho conosciuto suoi colleghi straordinari, ma molti si sono inginocchiati per mantenere i loro privilegi. L’è mei di’ negot, è meglio non dir niente».
Diciamo, invece.
«Raccontano senza essere andati. Narratori bravissimi, neh, però un tanto al chilo. Molte imprecisioni e qualche falsità. Del resto, se scrivi senza aver visto...».