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 2024  settembre 13 Venerdì calendario

Intervista a Lina Botero. Parla di suo padre

«Papà capiva che capivo quello che desiderava». Lina Botero sintetizza con questa sorta di scioglilingua l’empatia viscerale, col padre, Fernando Botero: pittore e scultore, (1932-2023), ritrattista di soggetti extra-large, del quale cura la memoria. La incontriamo all’albergo Pietrasanta, località elettiva di Botero, dove riposano le sue ceneri. Nella «piccola Atene», si sono appena svolte le celebrazioni per l’anniversario della morte del Maestro, a cura di Gianluca Borgonovi, presidente dell’Associazione Commercianti. «Il 17 settembre – anticipa lei, accogliente e sorridente – a Roma, si aprirà una mostra a Palazzo Bonaparte, con 120 opere di mio padre e altri grandi come Piero della Francesca».
Che rapporto aveva con lui?
«Di grande intesa e fiducia reciproche. Anche in volto, tra i miei fratelli, sono la più somigliante a papà».
Quale eredità le ha lasciato?
«L’amore per gli altri».
Ha mai pensato di dipingere?
«Più che fare arte, preferisco divulgarla, curando le mostre di mio padre. Da quando è mancato, mi è venuto addosso uno tsunami di lavoro».
Ha molte altre attività. La preferita?
«Design d’interni. Per arredare una casa, parto sempre da una collezione d’arte. La stanza più importante è la camera da letto. Forse perché lavoro da lì. Anzi, no, la cucina: cuore della famiglia».
La vostra è stata mutilata dall’incidente del ’74, in cui morì il suo fratellino?
«Il momento più brutto della vita di papà. Un camion uscì di strada, e ci travolse. Pedrito morì a soli quattro anni; mio padre perse l’ultima falange del mignolo destro. Per un anno si chiuse in una stanza a fare ritratti del suo bambino. Nel ’75 dipinse Pedrito a Caballo e divorziò dalla seconda moglie, Cecilia Zambrano».
Che rapporto aveva con la sua terza e ultima consorte, Sophia Vari?
«Meraviglioso: lei lo amava follemente. Non potevo immaginarlo senza Sophia. Pensate: lui è mancato il 5 maggio, lei il 15 settembre. Da subito, sapevo che sarebbe finita così».
Sul suo profilo Instagram, c’è scritto proud mum, mamma orgogliosa. Vero?
«E sono anche nonna di quattro nipoti, doni dei miei due figli. Il mio compagno è l’enologo Alessandro Noli, produce il Clos de Tart in una tenuta della Borgogna, acquisita da François Pinault».
Il co-fondatore del polo del lusso francese, Kering, che detiene fra gli altri, Gucci. Che tipo è?
«Un signore gentile e impegnatissimo: molto appassionato di vini. Segue lui questa sezione del gruppo. La moda è in mano al figlio, François-Henri».
Lei indossa spesso gonne ricche alla messicana forse che fa base a Città del Messico. Le piace il made in Italy?
«Amo la semplicità. Quindi, Giorgio Armani, Loro Piana e Brunello Cucinelli. La moda è un fantastico mezzo per esprimere la femminilità di una donna».
Botero ritrasse un abito rosso di Valentino. Perché proprio lui?
«Nel 1981, per un servizio, Vogue France gli chiese di interpretare i capi di alcuni stilisti che avevano sfilato a Parigi. Tra Christian Lacroix e Yves Saint Laurent c’era Valentino. Il marchio italiano mi è sempre piaciuto. Finché c’è stato lui».
Suo padre seguiva la moda?
«No! Pur essendo figlio della sarta Flora Angulo, bisognava puntargli una pistola alla testa perché comprasse tre camicie all’anno. Detestava la vanità: nell’affresco La Porta dell’Inferno l’ha raffigurata come uno scheletro ben vestito e ingioiellato. Non amava neanche la mondanità: era molto solitario, forse perché cresciuto in solitudine. Il contrario di Andy Warhol e dei giri degli artisti».
È vero che, quando bussò alla porta di Picasso, lui non gli aprì?
«Il maggiordomo di Pablo gli disse: “Il Maestro non è in casa”. Papà lo attese lì per un giorno. Invano».
Vittorio Sgarbi una volta ha detto: «Botero è stato l’ultimo baluardo contro l’arte contemporanea». Condivide?
«Papà amava la semplicità: Giotto. Voleva che la sua arte arrivasse direttamente al popolo senza spiegazioni. Se ne fregava dei critici. E non concepiva chi comprava opere senza capirle: solo per investimento o per moda. L’arte deve essere emozione».
Botero è noto per i soggetti taglia XXL: ha preconizzato la moda curvy?
«È una banalizzazione associarlo alla “grassezza”. I suoi erano studi sulle volumetrie a cui, nell’arte, sono legate la bellezza e la sensualità. Nelle sue opere anche la natura è dilatata. Ma l’interesse principale era il colore, che per lui veniva prima della figura. Per esaltarlo non faceva le ombre. I suoi riferimenti erano gli acquarellati di Piero della Francesca che scoprì a Firenze».
Dove si svolse la sua prima mostra italiana al Forte Belvedere. Era il 1991. Si narra che l’idea nacque con Vittorio Sgarbi, a Forte dei Marmi: in spiaggia, sotto la tenda-ufficio di Gianni Mercatali, il Virgilio della Versilia.
«Confermo. Per riconoscenza, papà donò alla città la scultura Grande Paloma».
Regalò anche gli affreschi La porta del Paradiso e La Porta dell’Inferno alla chiesa della Misericordia di Pietrasanta. Nel ciclo figurano Hitler agli inferi e Madre Teresa di Calcutta, che risorge. Li conobbe?
«Né Hitler – ndr, smorfia di disgusto –, né Madre Teresa che adorava per il suo impegno umanitario. Papà era un filantropo: fondò a
Medellín una mensa da 600 coperti e una casa di riposo per 350 anziani. Da lì è partita la riqualificazione della città, ex-simbolo del cartello della droga di Escobar. È il mio orgoglio».
A Medellin, Botero regalò anche la scultura Uccello, su cui piazzarono dieci chili di tritolo. Come reagì?
«Ne scolpì una identica, affiancandola a quella semi distrutta. Intitolò il complesso Guerra e Pace».
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