la Repubblica, 13 settembre 2024
Lo studioso Francesco Benigno: “Non c’è più fiducia nella Storia”
La storia è ancora capace di interpretare il mondo? E come è cambiata in questi anni la nostra “storicità”, ossia il nostro modo di percepire il rapporto tra passato, presente e futuro? Francesco Benigno, professore di Storia moderna alla Scuola Normale di Pisa, si misura con i colossali cambiamenti intervenuti nella sua disciplina, minacciata su più fronti. E in un denso saggio del Mulino, La storia al tempo dell’oggi, estende la riflessione ai mutamenti della geografia mentale collettiva, rivoluzionata nei suoi confini temporali e spaziali. «Il passato fa fatica a spiegare il presente. E il presente non è più capace di delineare un futuro possibile», dice lo studioso, autore di volumi sulle rivoluzioni dell’età moderna, sul terrorismo e sulla criminalità organizzata.
Perché afferma che la storia non sembra più capace di farci leggere il mondo?
«Fino a non molto tempo fa la storia è stata la principale lettura del presente, oggi è diventata una delle tante letture possibili e certo non la più attraente. In questi ultimi anni ha acquistato un ruolo preminente la memoria storica, che ha una più efficace presa mediatica. Ma se la storiografia rivendica regole certe, la memoria si fonda su criteri identitari più soggettivi. Questo comporta diverse conseguenze: anche la rinuncia a una ricostruzione il più aderente possibile alla realtà dei fatti, a vantaggio di più narrazioni arbitrarie, emotive e impressionistiche».
C’è una relazione tra la perdita di centralità della storia e una nostra diversa percezione del rapporto tra presente, passato e futuro?
«Per secoli siamo stati abituati a pensare che nel passato fosse possibile riconoscere le radici del presente, le ragioni per cui il mondo è così com’è. E il futuro fosse una sorta di inveramento delle tendenze evolutive del passato-presente. Ma questa concezione della storia si fondava sul mito del progresso storico, sull’idea di un percorso lineare per cui il passato poteva anche andare in una direzione diversa o addirittura opposta rispetto al presente, ma poi si sarebbe messo in carreggiata».
Una visione progressiva che è alla base del metodo marxista e storicista.
«In realtà va molto oltre queste due culture, toccando il cuore dell’Occidente e la sua fiducia nel progresso. Una volta che viene meno questa fiducia, crolla anche il primato statutario della storia».
E a mettere in crisi il rapporto con il passato è proprio l’assenza di futuro.
«Il futuro è orribilmente scomparso dai nostri discorsi, perché ammantato di imprevedibilità e di aura catastrofica. Il futuro potrebbe essere una pandemia ancora più grave del Covid, un cambiamento climatico più radicale o l’esplosione di un conflitto nucleare. Non siamo più capaci di pensare il futuro. E questo mette una pietra tombale sulla visione progressiva».
Lei vede riflesso questo cambiamento anche nelle mutate categorie della storiografia.
«Nell’Ottantanove il bicentenario della Rivoluzione francese coincise del tutto casualmente con il crollo del Muro di Berlino e con il tramonto del comunismo sovietico, quindi in sostanza con il fallimento dell’altra grande rivoluzione novecentesca. Da allora l’idea di rivoluzione è venuta appannandosi. E anche sul piano storiografico è entrato in crisi un paradigma che per due secoli aveva segnato i momenti di svolta nella storia, caratterizzati dal riscatto degli oppressi dagli oppressori. Il paradigma rivoluzionario è stato sostituito da quello genocidario, che affonda le sue radici nella tragedia della Shoah: al centro della narrazione non sono più oppressi e oppressori ma vittime e carnefici, con una conseguente valorizzazione del ruolo memoriale e testimoniale».
La memoria e la testimonianza sono un necessario corollario della storia. Quando la memoria diventa insidiosa per la storia?
«Quando aspira a sostituirla, in nome dell’appartenenza etnica o di genere. Questo succede oggi nelle università americane dove è diventata egemonica la narrazione identitaria, legata alla ideologia woke e alla cancel culture, che è l’abiura dello storicismo. L’idea di fondo è che solo storici appartenenti alla stessa identità dei soggetti indagati – colore della pelle, lingua, religione, perfino il genere – possano studiare le vicende dei loro antenati e non quelli appartenenti a idiomi e a fisionomie sociali e collettive differenti. Può capitare che, durante la lezione di un professore bianco sulla storia degli afroamericani, qualche allievo nero giri la testa dall’altra parte, come per dire: non ti ascolto, non sei autorizzato. Mi capita di raccogliere l’insofferenza di accademici che vorrebbero andare a insegnare altrove».
Un ripiegamento identitario che si riflette in diversi ambiti culturali. La storia degli afroamericani può essere raccontata solo dagli afroamericani, così come una scrittrice donna e nera può essere tradotta solo da un’interprete donna e nera.
«Questa è una delle principali sfide alla storia tradizionalmente intesa: i soggetti credono di aver diritto a una propria storia. Se la coltivano, la costruiscono sulla base della memoria, non vogliono che ci sia qualcun altro a spiegargliela. Sulla storia africana di età moderna si arriva al punto di non utilizzare le fonti europee, specie quelle dell’Inquisizione, perché ritenute pregiudizievoli e corrotte: al posto di queste carte si utilizzano racconti di storia orale tramandati. Ovviamente questo modo di procedere colpisce alla radice il criterio della storia come scienza».
Esiste una verità storica?
«Io penso di sì. Non siamo scienziati, ma siamo tenuti a dire qualcosa di certo e non opinabile sugli eventi del passato. Devono essere fissate delle basi condivise, sulle quali non si può giocare. Questo minimo storico oggettivante oggi rischia di essere scalzato dalle derive identitarie».
Però a fronte di questa schematica dialettica identitaria, la nuova storicità in cui siamo immersi presenta una cifra di segno apparentemente contrario che è l’enorme dilatazione spazio-temporale.
«Si è allargato enormemente l’orizzonte temporale, che ora ingloba la protostoria – la storia del mondo prima del genere umano. E la prospettiva eurocentrica ha ceduto legittimamente il passo a una storia globale. Anche qui le cose si complicano un po’, perché è difficile coniugare il rigore storico con la sterminata mole di fonti richieste da una prospettiva mondiale. Purtroppo storici poliglotti come l’indiano-statunitense Sanjay Subrahmanyam sono davvero pochi».
Ce la faranno gli storici a vincere tutte queste sfide?
«Difficile dirlo. Certo sarebbe sbagliato assecondare l’attuale trimurti di razza/genere/identità, opponendo a essa la dimensione politica degli individui, che hanno diritto di essere più cose: essere donne, essere maschi, essere tante cose insieme, al di là del genere, dell’etnia, del gruppo di appartenenza. E queste possibilità se le giocano nella polis, che implica il rapporto con gli altri. Una sollecitazione positiva in tal senso arriva da quei movimenti che tendono a respingere la dimensione squadrata del genere umano, rappresentati dall’acronimo Lgbtqi+: sono gli stessi soggetti a rivendicare una poliedricità delle identità, oltre ogni fissità. Gli storici dovrebbero sforzarsi di cogliere questa pluralità, rinunciando alle gabbie identitarie».
A proposito del tema identitario, i nuovi programmi scolastici di storia su cui sta lavorando il governo italiano puntano molto sull’identità italiana. Studiare più storia, dice il ministro Valditara, significa studiare meglio l’identità italiana.
«A me pare che oggi occorra sviluppare un ragionamento sull’identità europea. Sarebbe potuto nascere dopo la crisi delle storie nazionali, ma in quel momento è esplosa la global history ed è saltato un passaggio centrale. È qui che dobbiamo concentraci, non sull’identità italiana, su cui sappiamo perfino troppo».
Il libro
La storia al tempo dell’oggi di Francesco Benigno (il Mulino, pagg. 192, euro 14)