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 2024  settembre 12 Giovedì calendario

Il primo cinegiornale. Un sogno infranto

Luigi Illica e Giuseppe Giacosa non erano solo scrittori, librettisti, sceneggiatori. Non erano soltanto compilatori pronti all’uso per il geniale maestro di Torre del Lago, i suggeritori, gli ispiratori, i verseggiatori di cui Puccini non poteva fare a meno. Erano molto altro, e forse molto di più di quello che gli è stato riconosciuto nella storia dell’opera e del teatro. Erano sognatori capaci di far correre il pensiero avanti di anni e di intuire in anticipo sui tempi qualcosa di cui né Puccini, né Ricordi conoscevano l’esistenza: «Il Giornale vivente».
Illica ne parla per la prima e unica volta in una lettera del 24 giugno 1917, che verrà trovata dagli eredi in una scatola sigillata, persa nel tempo. Era un articolo indirizzato alla Lettura, il supplemento letterario del Corriere. Ma avrà un’altra destinazione perché Illica, dopo aver ricostruito una storia che poteva cambiargli la vita, si era illuso che a qualcuno potesse ancora servire il brevetto di cui è rimasto l’unico depositario. Così cambia indirizzo e invece di via Solferino 28 spedisce il plico a Tito Ricordi, figlio di Giulio, erede della dinastia imprenditoriale. «Ella si occupa di cinematografia anche, non è vero?», attacca Illica. «Le allego l’attestato di Brevetto perché Ella possa giudicare bene la cosa e farsene un’idea». 
Il brevetto registrato a Milano oggi lo definiremmo innovativo, ma nel luglio 1893 si poteva dire rivoluzionario: era quello del primo cinegiornale italiano, o meglio di una applicazione del cinematografo al giornale o viceversa. Erano i momenti della Bohème quando Illica e Giacosa ne parlarono per la prima volta. L’idea prevedeva un’applicazione fotografica movimentata per creare un notiziario, da rappresentare nello stesso giorno e nella stessa ora in più città. Un giornale cinematografico, sfruttando i kinetoscopi ideati qualche anno prima da Edison, in anticipo sui fratelli Lumière che si stavano ancora ingegnando su come far uscire da una scatola l’immagine in movimento per arrivare alla proiezione. Il cinema, appunto.
Illica aveva lasciato da poco il giornalismo ma a sbalzi, tra una commedia fischiata e un libretto più o meno fortunato, restava contagiato dal mestieraccio. Giacosa era un affermato commediografo, ma bazzicava i giornali da una vita ed era addirittura circolata la voce che Eugenio Torelli Viollier lo volesse come suo successore al Corriere. Illica e Giacosa erano all’opposto come stile e come carattere. Diversissimi anche solo a vederli. Ma si stimavano, forse perché uno completava l’altro. 
Il giorno in cui Illica da abile giocoliere di parole diede un titolo alla sua idea, Giacosa si entusiasmò come un ragazzino. Erano a casa del poeta piacentino, colazione di lavoro con qualche licenza alcolica, pretesto per festeggiare del riso mantovano dono di Franchetti padre, con del Chianti d’annata, dono di Franchetti figlio. I Franchetti erano una dinastia importante, imprenditori agricoli, filantropi, esploratori, musicisti. Alberto, il figlio, aveva appena musicato con successo – e con l’approvazione di Giuseppe Verdi – Cristoforo Colombo, opera con libretto di Illica per la città di Genova. Raimondo Franchetti, il padre, aveva sposato una Rothschild e investito nella produzione vinicola e olearia in Toscana e di Illica era ammiratore: ne apprezzava la genialità e la rapidità. Invitati ma assenti giustificati, avevano lasciato con ogni ben di Dio il posto a tavola al pittore Luigi Conconi, che era arrivato fornito di pesce, ostriche e frutti marini. L’attore Gaetano Sbodio dell’omonima, famosa, compagnia dialettale doveva essere il quarto, ma il teatro l’aveva precettato: per scusarsi mandò alcuni mascherponi lodigiani, ahimè immangiabili, fu il commento dei commensali, perché inaciditi.
«Quando al caffè e cognac», scrive Illica nella lettera ritrovata, «rivelai la mia idea il successo fu più che lusinghiero, fu persuasivo, entusiastico». Il Giornale vivente era una porta aperta sul futuro. Giacosa illuminò il sogno con un habemus: si immaginò addirittura milionario, cosa che coi romanzi gli riusciva difficile. Dal briefing al sogno condiviso il passo fu breve: continuò per giorni e giorni in parallelo con la stesura del libretto della Bohème, tra riunioni carbonare e aggiustamenti in corsa, fino al progetto definitivo e all’incontro con chi a Milano doveva finanziare l’impresa del cinegiornale.
Illica aveva pensato a tutto. In primis all’apparecchio fotografico da distribuire ai reporter: «Era presso a poco come poi è stato, o avrebbe dovuto essere perché mai realizzato, il verascope Richard». Ecco la sua descrizione. «Un piccolo binocolo (traditore perché facilissimo ad essere nascosto da un reporter audace e abile, cosicché una persona o un avvenimento potevano essere sorpresi e presi senza sospetto). Un apparecchio a scatto, con pellicole a nastro per le immagini multiple, ma a doppio obiettivo per ottenere il risalto stereoscopico dell’immagine da me creduto necessario allora (il cinematografo ha poi dimostrato perfettamente inutile la preoccupazione stereoscopica, ma l’applicazione può sempre dare ottimi risultati)». 
Dimostrata l’operatività della macchinetta, toccò al pittore Conconi trovare la soluzione per spedire le immagini. L’ingegnoso artista scapigliato, allievo di Tranquillo Cremona, tirerà fuori la «busta postale impermeabile», per consentire al reporter di introdurre l’istantanea senza perdere tempo a fissarla e svilupparla: un’operazione che la «Busta Conconi» permetteva di fare in pochi minuti, appena ricevuta a destinazione la corrispondenza-film. L’apparecchio però bisognava realizzarlo. Ecco aggiungersi alla compagnia l’ottico Murer. «Non solo ce ne garantì la possibilità, ma ce ne consigliò la privativa poiché di quegli apparecchi non ne esistevano (anche il verascope Richard doveva ancora essere inventato)».
Al trionfo del sogno di Illica, Giacosa e Conconi, serviva una persona pratica in grado di mettere a terra il progetto e farlo decollare. «La scelta cadde su Francesco Sormani, cugino di Pirelli e suo procuratore capo, bravissima persona, mio amico da anni», scrive Illica. Viene aggiunto un posto a tavola. «L’entusiasmo di Sormani fu addirittura maggiore del nostro. Egli si mise subito all’opera interessando l’ingegner Barzanò e Salmoiraghi, onde spiccare subito il Brevetto. Non mancava che la materia prima, anzi, l’Uomo primo: il Capitalista». A Sormani il compito di fare il cacciatore di teste nella Milano ottocentesca in cui la borghesia si presentava a petto in fuori con le grandi industrie, le grandi banche e i primi magazzini commerciali. «I continui nostri sogni, studi, pensieri, trovate, calcoli ci avevano persuasi che alla praticità della cosa sarebbero occorse per lo meno 85.000 lire, le cosiddette lire di quella tal lega detta: a fondo perduto».
Edizioni in simultanea previste a Roma, Milano, Torino, Napoli, Palermo, Firenze, Genova, Bologna e Venezia. Primo menabò e prime sezioni del Giornale vivente secondo le indicazioni dei direttori in pectore, Illica e Giacosa: «L’avvenimento della politica interna», «L’avvenimento della politica estera», «L’avvenimento del giorno», «L’avvenimento teatrale», «I Teatri in genere», «Le personalità dei diversi mondi», «Il grrrrrrande suicidio del giorno», «Il grrrrrrande delitto del giorno», «Il romanzo d’appendice», «La quarta pagina in azione».
La coppia in vulcanica effervescenza fornisce anche esempi pratici di cronaca: «Daremo il Fatto con tutti i suoi dettagli tragici di personaggi e di ambiente, perché niente sarebbe più facile a un nostro corrispondente di prendere mezza dozzina di impressioni di un avvenimento». Deve essere di Giacosa, poi, l’idea di lusingare l’amor proprio dei reporter con le corrispondenze premio, dividendole in tre classi: le ordinarie (senza premio), le eccezionali (con premio oltre l’onorario mensile), le eccezionalissime (le extra, cioè, con doppio premio e interessenza).
Pochi mesi e si arriva al dunque. Sormani ha individuato il Capitalista. L’annuncio esige la solennità di un’altra tavolata. Al caffè il manager si scompone «con un urlo da far tremare i vetri», annoterà il pittore Conconi. Il nome rimbomba nel salotto. «Bocconi!», grida Sormani. Illica e Giacosa si abbracciano. Il sogno dei fratelli Lumière sembra anche il loro. È d’obbligo brindare. Bocconi voleva dire i fratelli Ferdinando e Luigi, venuti su dal nulla e protagonisti a Milano di una leggendaria ascesa imprenditoriale nel settore del commercio: da venditori ambulanti di string e bindei a primi ideatori del commercio al minuto, i grandi magazzini vendi-tutto.
Appuntamento fissato con pragmatismo milanese: subito, il giorno dopo. Luigi Bocconi riceverà la delegazione nella sua abitazione di corso Venezia, nel palazzo seicentesco che ospitava il convento dei cappuccini, lo stesso a cui aveva bussato Renzo Tramaglino nei Promessi Sposi. Ecco il racconto quasi stenografico di Illica sul fatidico incontro: «Quella notte nessuno di noi ha dormito. Ci siamo trovati tutti a Monte Merlo [il café chantant dei Giardini pubblici] un’ora prima. Poi a due a due, a debita distanza per i Bastioni, con il bavero su come in quei bei tempi che si osava andare a puttane di pieno giorno, lenti e maestosi e – perché non dirlo – sicuri di noi stessi, ci siamo portati dal Capitalista. Fummo ricevuti in un salone a pian terreno, a destra. Sormani doveva parlar per primo, per spiegare l’industrialità della cosa. Giacosa dopo, di far il tremolio sul cantino acuto e flebile, poi sulla “meraviglia e utilità umanitaria di quella sorprendente idea”… Mentre scrivo rivedo le facce di Giacosa e di Conconi, mi par di risentire la voce di Sormanone e rivedo anche la faccia livida, floscia nella sua scarnezza, gialla e bruta e cretina di Luigi Bocconi… Il Capitalista lasciò a malapena che il povero Sormani potesse finire, non lasciò a Giacosa il tempo di alzarsi per mettere in azione il solito tremolio del suo fascino.
«“Signori, un giornale? Soo ben che me ciappen in gir”. Balbettò non so che cosa sul rispetto che egli aveva di tutti e soprattutto di noi, ma ci fece capire che se pigliavamo la porta colle buone, ben con bene, se no ce l’avrebbe fatta prendere lui. Ecco, se fossimo stati quattro furfanti ci avrebbe trattati meglio. Ci siamo raccapezzati e ci siamo tutti e quattro trovati sulla porta di strada. “Bocconi… amari… che restano sullo stomaco”, mormorò il povero Giacosa. Boccon de pasta badesa per i ratt, esclamò Conconi. Ed è bastato quel piccolo scacco per disamorarci tutti…»
I sogni restano sogni, Illica e Giacosa rimettono i piedi per terra e riprendono quel che sanno fare: libretti e commedie. Conconi torna ai suoi magnifici ritratti. Sormani, deluso, continuerà a cercare inutilmente un investitore. Del Giornale vivente e del mitico primo cinegiornale italiano nessuno parla più.
Luigi Bocconi rimette testa e capitali nei più redditizi grandi magazzini Alle città d’Italia, non ancora Rinascente. L’impero creato insieme al fratello Ferdinando è esteso a tutto il Paese, con le prime vendite per corrispondenza. Ferdinando Bocconi è la mente del business imprenditoriale. Il biografo Ciro Poggiali scrive che «aveva sognato la fortuna» da piccolo e non si esprimeva come gli altri capitalisti. Invece di dire «io do da mangiare a tanta gente», affermava: «Io do lavoro a tanta gente». Con la terza elementare aveva esaurito la scuola, sapeva compitare il sillabario e fare due indispensabili operazioni aritmetiche, a nove anni era già a bottega. Poi lo sbarco da Lodi a Milano e l’irresistibile ascesa, in compagnia di un libretto imparato a memoria: Self Help, autore Samuel Smiles, tradotto in italiano Chi s’aiuta, Dio l’aiuta. Alla morte del figlio Luigi nella battaglia di Adua, Ferdinando Bocconi destinerà una somma ingente alla nascita della più importante università commerciale italiana: la Bocconi. Universalmente nota come simbolo di competenza, qualità e innovazione. Il progetto di Illica e Giacosa nel 1893 avrebbe potuto aggiungere prestigio a prestigio, diventare una case history. Ma con quel Bocconi non si capirono. Forse era il Bocconi sbagliato.