il Fatto Quotidiano, 11 settembre 2024
Volkswagen e la crisi del modello tedesco spiegati facile
La Germania continua a dare segnali economici negativi: la crescita del 2024 sarà zero; la disoccupazione torna a crescere; Volkswagen, una delle aziende simbolo, annuncia possibili chiusure di impianti. Data la centralità dell’economia tedesca, il rallentamento rischia di provocare effetti a catena in Europa. La debolezza economica nutre l’incertezza politica: nei Länder dell’Est la popolazione vota massicciamente per partiti antisistema (l’AfD e il BSW), creando difficoltà alla coalizione tra socialdemocratici, verdi e liberali. Che sta succedendo?
Assistiamo, a mio avviso, all’esaurimento del modello di crescita tedesco tirato dalle esportazioni, che ha prima risollevato e poi sostenuto l’economia tedesca dopo la riunificazione. Questo modello ha le seguenti caratteristiche stilizzate: i consumi delle famiglie vengono compressi dalla politica di moderazione salariale (particolarmente forte nei servizi), la politica di bilancio è restrittiva, gli investimenti pubblici e privati ristagnano, dunque la domanda interna langue. Le tendenze recessive, però, sono compensate dalla domanda estera, stimolata dalla sottovalutazione del cambio reale.
La crescita tirata dall’export è responsabile dell’85% della crescita tedesca tra il 1995 e il 2007, mentre il contributo dei consumi è trascurabile e quello degli investimenti negativo. Tra il 2009 e il 2018 il contributo delle esportazioni scende al 59%, ma l’attivo delle partite correnti rimane molto elevato (intorno all’8%), segno che la domanda interna potrebbe essere stimolata maggiormente, ma si sceglie di non farlo. In particolare la politica di bilancio rimane restrittiva nonostante tassi di interesse negativi e l’evidente deterioramento delle infrastrutture del Paese.
Il modello di crescita tirato dalle esportazioni richiede che la Germania continui a svolgere un ruolo di intermediario commerciale tra Est e Ovest del mondo. Questa condizione non è più soddisfatta. In particolare è mutato il rapporto con la Russia. Dopo l’inizio della guerra in Ucraina, la Germania, fortemente dipendente dal gas russo, è stata costretta dalla mutata situazione geopolitica a cercare altre fonti di approvvigionamento a costi più alti. Questo crea difficoltà in particolare a settori fortemente energivori come la chimica e la siderurgia, che stentano a riprendersi dallo choc.
Ancor più importante è il rapporto con la Cina, che è la seconda destinazione dell’export tedesco dopo gli Usa e il mercato con le maggiori potenzialità di sviluppo per il settore dell’auto, centrale per l’economia tedesca. Dopo la crisi dell’euro, la Germania ha limitato le conseguenze negative per la sua economia spostando in parte la destinazione delle esportazioni dai Paesi della zona euro ai Brics e in particolare alla Cina. Adesso però l’accesso ai mercati di sbocco è minacciato dalla reintroduzione di politiche protezionistiche.
Un altro aspetto della crisi è il forte ritardo accumulato dall’industria tedesca sui fronti della digitalizzazione e della transizione verde, anche a causa dei mancati investimenti. Si pensi in particolare all’auto elettrica, in cui la Germania è stata superata in pochi anni dalla Cina. Se il prodotto e il paradigma tecnologico non sono più in fase con le caratteristiche della domanda internazionale, allora la soluzione classica dei decisori tedeschi dinanzi a crisi congiunturali, ridurre i costi unitari, non funziona più.
Sarebbe necessario un massiccio piano di investimenti pubblici che aiuti le aziende a compiere la transizione verso le energie rinnovabili e le tecnologie digitali. È quel che chiedono le élite economiche più avanzate. Il rilancio degli investimenti consentirebbe inoltre di bilanciare il modello di crescita aumentando il peso della domanda interna. Una occasione per il cambiamento di fase era data dalla riforma delle regole fiscali europee, che si accompagnava a un dibattito interno sul “freno al debito”. Come è noto, l’occasione è stata sprecata: le nuove regole continuano a non lasciare spazio sufficiente agli investimenti, anche quelli considerati prioritari dall’Unione europea.
La riforma ha incontrato un ostacolo insormontabile nel governo tedesco, e in particolare nel ministro dell’Economia Lindner.
Ancora una volta gli altri Paesi europei sono parsi essere soggiogati, intellettualmente prima ancora che politicamente, dalla Germania, che continua a esser vista come un modello economico da imitare. Non lo era negli anni della crisi dei debiti sovrani, dato che la crescita tirata dalle esportazioni non può esistere se non come eccezione, e non lo è a maggior ragione ora che l’originale del modello è in crisi. I veri amici della Germania non dovrebbero seguirla pedissequamente in scelte sbagliate, ma dovrebbero indurla a cambiare rotta.
*Direttore del Max Planck Institute di Colonia