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 2024  settembre 11 Mercoledì calendario

Graham Greene e l’ossessione del male


«Dovevo trovare una religione» scrive Graham Greene «contro cui misurare il mio male». Greene, lo «scrittore cattolico» (definizione che odiava), è così collocato nella giusta prospettiva: prima ancora di scegliere Cristo come suo valore supremo, era stato un uomo ossessionato dalle gradazioni in sé. Nessuno scrittore del ventesimo secolo ha avuto una mente più incline al confronto tra esseri umani. Laddove romanzieri meno capaci ricorrono a tratti marcati per distinguere il personaggio buono da quello cattivo, Greene è stato il maestro della caratterizzazione multipla, di quelle linee sottili che separano il male dalla crudeltà, dalla rozzezza, dall’ottusità ostile. I suoi personaggi vivono dentro un sistema morale meticolosamente calibrato. Falliscono per gradi. Così, non esiste realmente un modo di essere buoni nei romanzi di Greene, ma solo un milione di modi per essere più o meno cattivi.Questo minuzioso realismo etico viene spesso trascurato, a vantaggio degli aspetti più barocchi dell’opera di Greene – la sessualità esplicita, l’ossessione per i viaggi, il reportage giornalistico – elementi che sembrano collocarlo con sicurezza tra i suoi compagni d’avventure: Erskine Childers, Len Deighton, Alec Waugh, John le Carré. Certo, Greene è sempre stato uno scrittore interessato al brivido – da giovane ha giocato alla roulette russa, quella dove si muore davvero, non in senso metaforico. Tuttavia è bene ricordare che sugli scaffali della sua libreria dominava Henry James. Qualsiasi altra cosa sia stato, in letteratura Greene è stato un agente doppiogiochista, e parte della profondità della sua opera si rivela non appena si riconosce il suo principale antecedente in Henry James (invece che in H. Rider Haggard, eroe della sua infanzia). Nei romanzi di Greene, così come in quelli di James, le traversie della personalità umana sono portate sul tavolo autoptico. Le differenze di carattere alle quali siamo affezionati e crediamo reali, in base alle quali definiamo noi stessi («Io sono gentile, lui invece non è che un cinico»), si rivelano poco spendibili di fronte alle situazioni umane più estreme: la guerra, la morte, la perdita, l’amore. «La natura umana non è bianca e nera, ma nera e grigia».Greene non è il primo scrittore ad accorgersene, ma il suo grigio è straordinariamente vario. In quest’area grigia dovremo collocare l’ambiguo terzetto di L’americano tranquillo : Phuong con la sua schietta venalità, Fowler con il suo disimpegno, Pyle con la sua innocenza. Non è un romanzo costruito in modo geniale? Fa pensare allo shanghai, quel gioco dove bisogna riuscire a prendere un bastoncino per volta senza muovere gli altri. È un colpo da maestro bilanciare questi tre individui – mettendone a confronto il cinismo, le speranze, i fallimenti privati – e tuttavia calibrare la situazione in modo tale che non possiamo mai emettere sui personaggi quel giudizio definitivo e compiaciuto con cui si potrebbe considerare concluso il lavoro di chi legge. Greene non amava concedere questa soddisfazione ai lettori: «Quando non sei sicuro, sei vivo». Nel caso di L’americano tranquillo l’ambiguità morale risiede nelle fondamenta stesse del romanzo. Prima ho parlato di un sistema morale calibrato, e questo ci ricorda l’accorto e prudente Henry James di Gli europei, ma è un lavoro ben diverso schierare i propri personaggi su un campo di battaglia invece che in un salotto! Su un campo di battaglia non si è sicuri di niente. Greene era attratto in modo compulsivo da alcuni dei più intricati conflitti del suo secolo, da guerre che si continuavano a combattere anche molto dopo che le motivazioni per combatterle erano divenute oscure.I suoi personaggi emanano l’incertezza morale e il disorientamento derivanti dal vivere una guerra senza fine. Malgrado ciò, in Vietnam Phuong e Fowler si sono trovati a vicenda, una benedizione che, almeno per Fowler, è quanto di meglio potesse sperare. Il loro è un piccolo spazio tra incudine e martello. «Credo fermamente nel purgatorio», ha detto una volta Greene in un’intervista. «Il purgatorio per me ha senso (…), dà come un’idea di movimento. Non riesco a credere a un paradiso che sia mera beatitudine passiva». Nel purgatorio di Fowler arriva Pyle, che invece al paradiso ci crede. E arriva armato della sua grandiosa fantasia sul Vietnam, con la quale si sforza di far coincidere la realtà del paese, costi quel che costi. Ma tra i personaggi del romanzo non è l’unico che si aggrappa a storie fuorvianti ed egocentriche. Pyle ha una sua storia sul conto di Fowler, ma anche Fowler ha una sua storia sul conto di Pyle (ed è la prospettiva dominante nel romanzo), storia che erroneamente lo rappresenta più americano «tranquillo» di quanto non si riveli. E tutti e due gli uomini hanno la loro storia su Phuong, distorta e di stampo inevitabilmente coloniale. Nessuna di queste narrazioni è attendibile: tutte sono minate alla radice da ciò che ognuno dei personaggi ha bisogno di credere. Greene comprendeva il flusso di egoismo che attraversa le nostre motivazioni più profonde (non dimentichiamo che già nella sua adolescenza era stato lungamente psicoanalizzato da uno junghiano), ed era maestro nel seguire lo sviluppo di questi desideri dal loro intimo microcosmo (due persone che si innamorano) alle loro conseguenze macrocosmiche e geopolitiche. Sapeva che un paese si può innamorare di un altro paese, poi lasciarsi coinvolgere, poi stancarsi, infine spezzargli il cuore