Corriere della Sera, 10 settembre 2024
Intervista a Giovanni Allevi
«Un giorno ho sentito un forte bruciore alla testa, e poiché i capelli erano lunghi, ricci e intrecciati tra di loro, li ho persi tutti insieme nel giro di poche ore. Li ho tolti come se fossero una parrucca. Eccomi: calvo, imbottito di psicofarmaci per non cadere nel baratro del panico, ricolmo di oppioidi, dimagrito fino a pesare 63 chili. Immunodepresso, indebolito, con una flebo perennemente attaccata per l’idratazione. Avevo perso tutto, non solo i capelli». Giovanni Allevi due anni fa ha scoperto di essere malato. Mentre aveva tutto quello che la società di oggi ti chiede di avere (soldi, successo e follower, che altro?) ha ricevuto una diagnosi che può assomigliare a una sentenza. Ora il suo viaggio è diventato un libro (I nove doni – Sulla via della felicità, edito da Solferino).
Il giorno della diagnosi?
«Ero per strada, a Roma, mi ha chiamato una dottoressa e mi ha comunicato la diagnosi. Mieloma. Una parola dal suono dolce, ma al tempo stesso insidiosa. La prima sensazione che ho avuto è stato lo straniamento, come se stessi vivendo dentro un sogno, come se fossi uscito da me stesso, come se lo dicessero a un altro. Ricordo il pavimento del marciapiede come se diventasse obliquo, come se fossi dentro una fotografia. Avevo perso il senso della realtà. Stavo già entrando in un’altra realtà. Quella dottoressa però è stata bravissima, le sue parole mi hanno colpito: la diagnosi è il primo passo verso la guarigione».
Il mondo le è crollato addosso.
«Ho fatto l’esperienza della possibilità della mia fine, ho pensato che avrei passato tutto il mio tempo futuro in compagnia di un dolore fisico. Quindi ho provato angoscia, ansia, incubi, panico».
La prima reazione qual è stata?
«Sono subito andato a vedere a quali note musicali corrispondessero le lettere della parola mieloma, secondo un procedimento matematico già usato da Bach: do – la bemolle – mi – si – re – do – do. Una melodia romantica, dolce, avvolgente, coinvolgente. Che meraviglia. Ho pensato che potesse essere lo spunto per una nuova composizione e in ospedale fin dal primo giorno di una lunga degenza ho voluto impegnarmi nella composizione di un brano che fosse costruito su questa melodia. Piuttosto che scrivere un diario a parole dove raccontare le mie emozioni, ho voluto farlo in note, che è quello che mi viene più spontaneo. È la mia natura. Avrei attraversato mesi di ansia, momenti di euforia e di dolore, attimi di ebbrezza, speranza e attesa. E li avrei messi in musica».
«Il mio midollo osseo era malato. Erodeva le ossa dall’interno: impossibile descrivere il dolore». Ancora adesso porta un busto per la schiena, il dolore fisico è un compagno sempre al suo fianco.
«Tutto è iniziato con un mal di schiena durato mesi, l’apice alla Konzerthaus di Vienna, avevo finito di suonare e non riuscivo ad alzarmi, non riuscivo a staccarmi dallo sgabello: lì ho capito che c’era qualcosa di serio e grave. Provavo un dolore lancinante che ho contrastato con una terapia a base di un oppiaceo tristemente famoso, il Fentanyl, che è 100 volte più potente della morfina e che crea effetti collaterali che non avrei mai immaginato: per esempio la sensazione di avere la febbre a 39 fissa, mattina e sera, per mesi. Sfiancante».
Da una risonanza è emerso che una vertebra si era molto schiacciata, rischiava di rompersi.
«E poteva tranciare di netto il midollo spinale. Significava l’ipotesi concreta di finire su una sedia a rotelle. Una eventualità non ancora scongiurata, rimandata a un futuro indefinito, ma che per fortuna potrebbe anche non accadere. Sono tutte sensazioni con le quali ho dovuto fare i conti per scoprire dentro di me una forza che non avrei mai immaginato».
Oltre al mal di schiena deve fare i conti con il tremore alle mani. Proprio a lei, che suona il piano.
«Avevo la netta sensazione che non avrei più suonato, o che sarebbe ri-successo dopo tanti anni».
Invece ha già ripreso anche i concerti. Il tremore resta?
«All’inizio si instaura un circolo vizioso: mi stanno tremando le mani. Aiuto. Panico. Le mani tremano ancora di più. A Locarno stavo per alzarmi e annunciare il mio definitivo ritiro dalle scene. Ma il pubblico mi ha dato forza: non gli interessava più la perfezione. Oggi riesco a controllare il tremore con un auto-inganno al cervello. Se mi tremano le dita penso che è bello, che sta andando in scena la mia fragilità, che sono autentico, sono io».
Attraverso la malattia ha scoperto «i nove doni» che danno il titolo al libro. Ad esempio si è liberato dalla dittatura dei numeri, dalla «sindrome quantitativa», quella che in un teatro pieno ti fa notare l’unica sedia vuota. Un altro dono è stato liberarsi dal giudizio degli altri.
«Scopri che primeggiare è assolutamente inutile, che il giudizio degli altri non conta. Dobbiamo liberarci da questa schiavitù, anche se so che è difficilissimo perché il condizionamento che riceviamo è potentissimo. Per colpa dell’invasività dei media il concetto che arriva è sempre quello: dobbiamo vincere, essere forti, belli, ammirare le persone ricche, non dobbiamo dimostrare nessun tipo di fragilità. Questo è un bombardamento che genera ansia a tutti i livelli: chi riesce a tenere un passo del genere?».
Nel libro racconta che la meditazione e la contemplazione della natura hanno avuto un effetto curativo.
«In modo spontaneo ho compreso che per accogliere il dolore – non per accettarlo, perché l’accettazione già contiene il senso della sconfitta – mi faceva bene tenere il mio gattino in grembo e respirare. Una pratica che portava a un rilassamento dei muscoli, a un’ossigenazione del corpo, a una diminuzione della percezione del dolore. Un oppioide naturale, il gatto. Così mi liberavo dei pensieri negativi, per arrivare a una sorgente vitale che è dentro ognuno di noi e che ci supera. Un’energia che tutto abbraccia e ci trascende: nella Natura mi immergo e ritrovo il contatto con un’energia ancestrale».
Anche la cultura l’ha aiutata.
«La cultura universalizza la fragilità umana e così mi sono sentito compreso. Ho riletto l’Iliade di Omero, era come se stesse parlando di me: in un momento di grandissima solitudine non mi sono sentito solo».
Il domani?
«Non sapevo che dal mieloma non si guarisce mai, anche se in realtà si guarisce giorno per giorno. Tra i brani che ho composto c’è Tomorrow, che esprime il nuovo significato che ha assunto per me il concetto di domani. Non più un evento lontano nel futuro, ma un presente allargato. Ho imparato a vivere l’attimo, ho imparato a non lasciare una minima goccia di vita inascoltata. Ogni alba è una promessa, ogni tramonto è un arrivederci. Ogni giorno puoi rinascere e scoprire dentro di te una forza che non immaginavi: nonostante la difficoltà, la sofferenza fisica e la malattia è possibile addirittura trovare un briciolo di felicità».