Avvenire, 10 settembre 2024
González, esule dal Venezuela, non si arrende
«L’ho fatto perché le cose cambino in Venezuela». Con queste parole, il candidato dell’opposizione, Edmundo González, ex diplomatico e studioso 75enne, ha spiegato la ragione dell’esilio a Madrid dove è arrivato domenica dopo la conferma di avere ricevuto l’asilo politico da parte del governo di Pedro Sánchez. Non una rinuncia all’impegno per destituire Nicolás Maduro bensì un cambiamento di programma. L’affermazione avvalla implicitamente la versione spagnola della vicenda che diverge da quella venezuelana. Delcy Rodríguez, vice di Caracas e artefice, insieme al fratello Jorge, presidente del Parlamento, dell’accordo per la partenza di González, ha parlato di «conversazioni ampie» con Madrid. Il ministro degli Esteri spagnolo, José Manuel Albarez, ha negato ogni «accordo politico» – ovvero eventuali contro-partite – nei confronti di Maduro. Il premier socialista Sánchez si sarebbe limitato ad acconsentire all’istanza del leader anti-chavista. Quest’ultimo è progressivamente scomparso dalla scena dopo la denuncia di brogli fino alla completa clandestinità in seguito al mandato d’arresto spiccato dalla giustizia chavista lunedì scorso con l’accusa di «terrorismo». All’inizio di settembre, come ha confermato il ministro degli Esteri dei Paesi Bassi, Caspar Veldkamp, González è riparato nell’ambasciata olandese e da lì ha cominciato i colloqui con le autorità spagnole. Le precisazioni non hanno hanno evitato la levata di scudi del Partito popolare (Pp) e di Vox che hanno parlato di «favore a Caracas». Proprio su richiesta del Pp, oggi il Congresso si pronuncerà sul riconoscimento di González come presidente eletto al voto del 28 luglio, come sostenuto da più parti, in seguito al rifiuto di Maduro di mostrare le prove del conteggio con cui si è proclamato vincitore. In ogni caso, il leader oppositore ha già incassato un coro di solidarietà internazionale. Primi fra tutti Ue e Usa. «È un giorno triste per la democrazia in Venezuela», ha detto l’alto rappresentante Josep Borrell. Il segretario di Stato, Antony Blinken, ha supportato apertamente la scelta di González. «Rimane la migliore speranza per la democrazia» a Caracas, ha affermato su X. Non un sostegno di circostanza. Il verbo «rimanere» indica che per Washington la partita è ancora aperta. L’Amministrazione Biden vuole terminarla entro novembre, in modo da evitare che un cambiamento di colore alla Casa Bianca vanifichi il lavoro degli ultimi anni. Washington sa, però, che non sarà facile. L’intransigenza di Maduro di fronte alla possibilità di lasciare il potere – pur con tutte le assicurazioni del caso – ha sorpreso tanti. Anche perché rappresenta un ulteriore indurimento del governo rispetto alla crisi del 2019. Allora, retorica a parte, il presidente autoproclamato Juan Guaidó era potuto rimanere in patria. Nonostante le accuse, le autorità non erano arrivate all’arresto.
Stavolta Maduro è sembrato imitare il “metodo Ortega”: negli ultimi anni, il presidente nicaraguense ha espulso migliaia di oppositori, inclusi i principali avversari, in genere dopo un passaggio, più o meno lungo, in carcere. Fondamentale, in tal senso, l’appoggio di Russia e Cina che rappresentano un prezioso acquirente alternativo per il petrolio venezuelano. Potrebbe, però, non essere sufficiente per sostenere il nuovo corso inaugurato da Caracas con la dollarizzazione di fatto. Washington punta sulla paura di una parte importante dei vertici chavisti di assistere al ripiombare del Paese nell’abisso della bancarotta. Nonché sulla sintonia tra la Casa Bianca e le altre nazioni del Continenti, a cominciare da quelle guida-te da governi progressisti. Non solo sono gli ultrà Daniel Noboa e Javier Milei a tuonare contro «il dittatore Maduro». In particolare, con il leader argentino la tensione ha raggiunto il livello massimo. Dopo la rottura delle relazioni, l’ambasciata di Buenos Aires è nel mirino delle forze di sicurezza venezuelane che minacciano di fare irruzione per catturare i sei collaboratori di Machado rifugiati all’interno.A offrire protezione alla rappresentanza è stato a sorpresa il Brasile di Luiz Inácio Lula da Silvia, icona della sinistra globale. Brasilia è determinata a mantenere la gestione dell’ambasciata nonostante la revoca dell’autorizzazione da parte di Caracas. Di nuovo, inoltre, ieri, Lula ha chiesto a Maduro di dimostrare la propria vittoria. Il leader venezuelano rischia, dunque, l’isolamento continentale. Il Brasile, però, è anche la prima lettera dei Brics, l’alleanza del Sud globale in cui hanno acquistato sempre più influenza Russia e Cina. La sua presa di distanze, dunque, è particolarmente significativa. E una rottura definitiva potrebbe rappresentare un duro colpo per Maduro.