il Fatto Quotidiano, 10 settembre 2024
Piano Draghi già cestinato, salvo che per gli armamenti
Teoricamente è un piano per aumentare la competitività dell’Unione europea, che dalla sua nascita continua a perdere terreno rispetto a Stati Uniti e Cina. In realtà il report di Mario Draghi presentato ieri dalla Commissione europea è un programma di legislatura “con 170 proposte” per una riforma totale dell’Ue: finanza, politica industriale, modello di crescita, bilancio comune, sistema istituzionale. L’effetto è straniante: buona parte delle idee oggi espresse da Mario Draghi sull’Europa indicano come un problema le regole che lui stesso ha contribuito a creare, a partire da quelle restrittive sui bilanci pubblici, che poi servivano a forzare la competizione tra Paesi europei sul costo del lavoro, un modello che oggi è indicato come una strada sbagliata se si vuole una crescita sostenibile.Andiamo con ordine. L’Europa – ricorda il report – è un continente ricco, eppure da vent’anni perde terreno rispetto ai suoi competitori e rischia nel medio periodo una “lenta agonia”. Sono tre i campi su cui si concentra Draghi per provare a trovare soluzioni: l’innovazione tecnologica, in cui siamo di fatto assenti (il rapporto propone l’abolizione di normative Ue appena approvate da Von der Leyen e soci come il Gdpr e l’Ai act); l’energia che costa troppo e la transizione verde che ci vede ostaggi della filiera cinese; la sicurezza e la difesa di cui ci siamo sempre occupati poco lasciandola a Washington. Sono tutti settori economicamente decisivi, nei quali l’Europa è un grosso cliente sul mercato globale, ma un nano produttivo: per invertire la rotta, insieme al coordinamento delle politiche tra i vari Stati, servono però soldi, tanti. Ed è qui che la faccenda si fa meno facile, nonostante i coretti di giubilo – non solo italiani – che hanno accolto la fatica letteraria dell’ex governatore Bce.
I finanziamenti che servono, infatti, sono “enormi”: “Per raggiungere gli obiettivi stabiliti in questa relazione è necessario un investimento aggiuntivo annuo minimo di 750-800 miliardi di euro, in base alle ultime stime della Commissione, corrispondente al 4,4-4,7% del Pil dell’Ue nel 2023. A titolo di confronto, gli investimenti nell’ambito del Piano Marshall tra il 1948 e il 1951 erano equivalenti all’1-2% del Pil dell’Unione”. Quasi il 5% del Pil ogni anno in un continente che ha passato gli ultimi trenta a discutere degli zero virgola di deficit: Draghi, però, ha scoperto che la spesa pubblica non finisce in fumo e questa manna di investimenti accrescerebbe la produttività europea del 6% l’anno, spingendo la crescita e dunque in parte ripagandosi.uesti 800 miliardi all’anno, più dell’intero Pnrr, devono venire in gran parte dagli Stati perché il settore privato “non è in grado di fare la parte del leone”: “Se le condizioni politiche e istituzionali sono presenti, l’Ue dovrebbe continuare – basandosi sul modello del NextGeneration Eu – a emettere strumenti di debito comune, che verrebbero utilizzati per finanziare progetti di investimento congiunti”.
Come ha spiegato col tomo ancora tra le mani Ursula von der Leyen, però, “prima si definiscono le priorità, poi si parla dei fondi”, su cui “decide la volontà degli Stati membri”, che poi è un modo per dire che non succederà mai e tanti saluti agli investimenti in ricerca, nella filiera green, nel digitale, a non dire dell’addio al potere di veto dei singoli Stati nel Consiglio Ue, che Draghi ritiene necessario per realizzare le sue politiche. Per capirci, il ministro delle Finanze tedesco, Christian Lindner, ha già detto no: “Il debito comune non risolverà alcun problema strutturale”. Qualcosa, però, potrebbe salvarsi del poderoso piano dell’ex premier: la parte su sicurezza e difesa. Le proposte sono parecchie: il coordinamento tra gli Stati per le politiche industriali del settore; l’integrazione tra le industrie Ue, oggi troppo piccole; la creazione di programmi di ricerca dual use comunitari; l’obbligo di “comprare europeo” (il 78% della spesa in armi nei primi due anni di guerra in Ucraina se n’è andato fuori dall’Ue, il 63% verso i soli Stati Uniti). Quanto ai soldi, se non il debito comune, è possibile qui – anche nel quadro del nuovo Patto di Stabilità – una qualche forma di “eccezione” temporanea a livello contabile per gli investimenti pubblici nella difesa: tutti hanno promesso di aumentarli. E così l’Europa magari non avrà più competitività, ma almeno più cannoni e soldati. Una bella soddisfazione.