10 settembre 2024
Picasso lo straniero in due mostre a Milano e Mantova
Persino su Pablo Picasso (1881-1973) si sono ancora cose da dire, e non di poco conto. Ad esempio, 74.664 è il numero del fascicolo con cui era schedato negli archivi della polizia francese in quanto «straniero, anarchico, artista». Il dossier fu aperto poco dopo che il 19enne Picasso arrivò a Parigi da Barcellona, con pochi soldi in tasca e senza parlare mezza parola di francese, accolto in quel ghetto di poeti che un tempo era Montmartre. Tra questi, c’era Marc Jacobs che amava leggergli la mano, convinto che la stella sul palmo lo designasse quale predestinato. Il catalano che si autorappresentava come Arlecchino e adorava la compagnia dei saltimbanchi del Circo Medrano avrebbe in effetti sparigliato la tradizione accademica, decostruito il modo di dipingere il mondo e conquistato la nomea di artista più influente (di certo più famoso) del Novecento. Eppure, quel dossier non è stato privo di conseguenze. Nel 1940 Pablo Picasso chiede la naturalizzazione alla Francia, Paese in cui abita ormai da quattro decenni: l’uomo che siamo abituati a vedere con fare gagliardo e aria sorniona ha paura. Da tre anni Guernica è un’icona-mondiale contro le dittature che gira i musei del mondo, il suo amico Federico García Lorca è stato assassinato dai falangisti seguaci di Franco e Picasso è persona non gradita in Italia, Germania e Spagna. L’artista cerca protezione, ma la polizia francese gli nega la richiesta di naturalizzazione, proprio per quel vecchio dossier che un poliziotto zelante (si dice un pittore fallito) aveva dettagliatamente compilato. Va detto, per onestà di cronaca, che negli anni Sessanta André Malraux, scrittore e ministro della Cultura del governo De Gaulle, offrirà a Picasso la cittadinanza, ma il catalano a quel punto la rifiuta: i tempi son cambiati, fare il cittadino del mondo non è poi così male.
Pablo Picasso, dunque, è rimasto fino alla fine «straniero a casa sua» ed è merito della vulcanica storica dell’arte Annie Cohen-Solal se questa storia è venuta a galla. Con piglio da detective l’ha ricostruita in Picasso. Una vita da straniero, un librone di 450 pagine edito da Marsilio (euro 30), per poi declinarla in due originali e complementari mostre che ora possiamo vedere in Italia, i cui cataloghi sono editi da Marsilio Arte. La prima, Picasso a Palazzo Te. Poesia e salvezza, realizzata con la famiglia dell’artista e il Musée National Picasso-Paris, ha appena aperto a Mantova e sarà visibile fino al 6 gennaio, la seconda inaugurerà a breve, il 20 settembre, a Palazzo Reale di Milano: s’intitola Picasso lo straniero ed è concepita anche questa in collaborazione con il museo parigino e il Palais de la Porte Dorée, il Musée National de l’Histoire de l’Immigration, la Collection Musée Magnelli Musée de la céramique di Vallauris (fino al 2 febbraio).
«Ci sono voluti sei anni di ricerche per recuperare tutti i documenti e per dire che sì, il più grande artista del Novecento, è stato marchiato e schedato in quanto straniero e anarchico ci dice Cohen-Solal – Ma proviamo ad allargare lo sguardo: Picasso, in senso metaforico, è stato uno straniero sfuggente. Non gli importano le etichette della polizia e nemmeno quelle dell’Accademia delle Belle Arti, che lo rifiuta perché d’avanguardia. Fa sempre di testa sua: a un certo punto lascia Parigi e sceglie il Sud e la luce del Mediterraneo. Frequenta gli artigiani, i ceramisti. A ottant’anni continua a sperimentare, a suo modo è un outsider». A Palazzo Reale di Milano, con la curatela speciale di Cécile Debray e la collaborazione di Sèbastien Delot, documenti, fotografie, lettere, video e una novantina di opere (come il drammatico La Lecture de la lettre e il fascinoso Grande Baigneuse au livre) ripercorrono la parabola esistenziale e artistica di Picasso, immigrato (poi diventato di lusso) in Francia. Annie Cohen-Solal ce la mette tutta per confezionare due mostre capaci di raccontarci un Picasso inedito, certamente diverso dal megalomane macho la cui arte è ancora capace di battere i record d’asta, la cui firma è stata concessa per definire il brand di un’auto. Il percorso milanese si sofferma su alcuni episodi traumatici e meno noti della sua esistenza: il dossier e la schedatura della polizia di cui si è detto, ma anche il suicidio del suo amico Casagemas (la tela che ne raffigura la tragica morte apre la mostra). Il progetto di Cohen-Solal sembra quasi una risposta alle proteste che, in America soprattutto, hanno macchiato le inaugurazioni delle mostre a lui dedicate (molte lo scorso anno per i 50 anni della morte): Picasso non fu un grande artista, ma un grande predatore sessuale. Per qualcuno addirittura il Weinstein dell’arte. «Potrei rispondere che ogni artista è a suo modo un predatore: crea partendo da altro spiega Cohen-Solal -. Ma da storica, mi attengo ai dati: Pablo Picasso è nato a Malaga nel 1881 ed è stato un uomo del suo tempo, né migliore né peggiore di altri. Ha avuto spose, amanti, figli. Ciò che ha portato al mondo con la sua arte conta molto di più di certi suoi atteggiamenti con le donne. Tra l’altro, su vari aspetti era molto aperto: è stato uno dei primi a intuire la fluidità del sesso, come vediamo nelle lettere che scriveva alla sua amica Gertrude Stein». Questi e altri scritti e dipinti (un paio, da collezioni private, mai esposti prima in Italia) sono ora a Palazzo Te, accanto alla Sala dei Giganti di Giulio Romano. Fulcro della mostra sono qui le incisioni ispirate alle Metamorfosi di Ovidio, in dialogo con pezzi antichi come un vaso etrusco con farfalla, prestito della Fondazione Rovati.Abituati alla forza del suo tratto cubista, restiamo incantati dalle lievi e surreali poesie che il catalano Picasso componeva in francese negli anni Trenta, sperimentazioni necessarie per superare l’impasse di quegli anni (Les Demoiselles d’Avignon erano appena state malamente rifiutate dal Louvre). Sala dopo sala, lo seguiamo nella sua metamorfosi creativa e il Minotauro che ci congeda appare come un animale più vulnerabile che mitico, più insicuro che risolto.