La Stampa, 10 settembre 2024
La Repubblica degli amichetti
Parola del giorno: amichettismo. La si spende con eccesso di generosità e anche dire “tutti amichettisti, da sempre, che c’è di nuovo?” è una semplificazione che non regge alla prova dei fatti. C’è l’amichettismo privato di uno come Bettino Craxi, che alla splendente Ania Pieroni regalò rendite e benefit (non certo un Cda pubblico). C’è l’amichettismo intellettuale che collegò il vecchio Pci a personaggi come Giulio Carlo Argan, Gino Paoli, Edoardo De Filippo, Giorgio Strehler e li portò in Parlamento, li fece sindaci, gli offrì opportunità televisive, culturali, produttive. C’è l’amichettismo professionale di Silvio Berlusconi che in epoca pre-veline arruolò professori di ogni orientamento, Marcello Pera, Lucio Colletti, Vittorio Mathieu, Piero Melograni, Giorgio Rebuffa, e non solo li fece deputati ma gli affidò l’ossatura intellettuale del nascente Polo della Libertà. C’è l’amichettismo paranoico di quelli ossessionati dai complotti che vogliono solo fedelissimi nella stanza accanto, l’amichettismo do-ut-des di certe star della Prima Repubblica ("A frà, che te serve?"), l’amichettismo lungimirante che ha portato in politica gente presa dall’università o dalle professioni per irrobustire strutture troppo fragili.
Si sfida chiunque a mettere queste cose insieme, e magari a collegarle in esclusiva a certe nomine sgraziate dell’attuale governo. “Amichettismo”, nella versione larga che gli viene data adesso oltre al conio originale risalente a Fulvio Abbate, è una parola ambigua, bisogna stare attenti. Gli amici dei partiti non sono necessariamente il male, anzi spesso sono i soggetti che ne allargano la prospettiva e rendono decente, interessante, viva, una competizione che altrimenti sarebbe soltanto caccia al voto. Attenti a distinguere e pure alle conseguenze. Il dileggio a prescindere dei nominati, il tutto è casta amichettista, la tendenza a mischiare l’assunzione del cugino scemo o dell’amante (tecnicamente: nepotismo) con la nomina di un amico qualificato (tecnicamente: scelta professionale) o con la cooptazione di un intellettuale d’area (tecnicamente: premio all’impegno) conducono dove siamo già stati e non vorremmo tornare, e cioè alla valutazione dell’estraneità assoluta alla politica – il venire dal nulla, il non avere amici ma solo nemici – come prova regina di integrità morale.La destra ha giocato fin troppo con la categoria dell’amichettismo, associata a quella dei radical-chic, per giustificare certe contestazioni dell’establishment culturale del Paese, ai grandi festival e saloni, alla Rai e ai cosiddetti giornaloni. Oggi, dopo la vicenda di Gennaro Sangiuliano e il pasticcio di Maria Rosaria Boccia, gli elenchi dei nominati, assunti, favoriti dal melonismo, vengono passati al microscopio e l’opposizione finalmente può provare a rivoltare la frittata: amichettisti siete voi, con le venditrici di abiti da sposa elevare a madrine del G7, le odontotecniche promosse nei musei e chissà chi infilato nel Gran Giurì dei soldi al cinema. Matteo Renzi è il più drastico: governo amichettista! dice in un’intervista al Foglio, e ovviamente quegli altri hanno buon gioco a ricordargli gli amichetti suoi e certe grane in materia finite pure alla Corte dei Conti.L’enorme non detto di questa polemica è la fine delle competenze novecentesche che rendevano indiscutibili i ruoli e a prova di polemica gli incarichi. Solo un matto poteva contestare la nomina di Arturo Toscanini alla Scala, tutti si sentono in grado di opinare sul più modesto ruolo ottenuto da Beatrice Venezi al Mibac. È una fine che riguarda tutto l’arco politico, e per questo nessuno riesce a sottrarsi all’accusa di amichettismo (quando governa) o alla frustrazione di esserne escluso (quando è all’opposizione). Due modalità che si alternano, ben spiegate da una coppia di film che dovrebbero essere proiettati nelle sezioni, se esistono ancora. Il modesto professor Iacovoni di Caterina va in città, impiegato statale con velleità di scrittore, ignorato alla festa degli intellettuali dove è capitato quasi per caso, non pensa di essere invisibile in quanto dilettante mai pubblicato: crede che esista una lobby crudele che ha paura della sua bravura, amichetti che difendono col filo spinato il loro privilegio. La Stefania della Grande Bellezza, davanti all’intemerata di Jep Gambardella che le ricorda la vera storia dei suoi undici libri, scritti, pubblicati e recensiti perché per anni è stata l’amante del capo del partito, si alza e se ne va indignata: lo giudica un insulto, non un racconto aderente alla sua biografia amichettista.L’amichettismo, insomma, è figlio dei tempi più che dei partiti, e se ogni governo politico ha avuto la sua lista di incompetenti di successo, la vera differenza tra oggi e ieri è un’altra. Oggi non c’è partito che pubblicamente ammetta l’esistenza di somari nelle sue fila, e nessun dirigente che rivendichi la necessità di sbarazzarsene o quantomeno di evitargli promozioni. Ieri Rino Formica, ministro in carica del Partito Socialista Italiano, contestava pubblicamente la corte di “nani e ballerine” traghettata nella direzione nazionale del Psi e apriva senza infingimenti una questione politica di prima grandezza sul tema delle competenze e dell’affidabilità politica. Chapeau (che poi in quella direzione c’erano Gerry Scotti, Sandra Milo, Sergio Zavoli, e con questi chiari di luna si direbbe: ma magari!).