la Repubblica, 10 settembre 2024
La sociolinguista Vera Gheno in difesa del woke
Durante la conversazione su Teams, lo schwa lo userà più volte: tutt*, per esempio. Ma attenzione.Benché la sociolinguista Vera Gheno sia assolutamente woke («però a patto che ci capiamo su cosa si intenda per woke»), intervenendo nel dibattito sulla terza via tra la rivoluzione permanente e le politiche reazionarie, mette in guardia dalle semplificazioni che rischiano di compromettere la secondo lei condivisibile battaglia per la ricerca di un’autorappresentazione linguistica.Gheno, quindi il tema non è schwa o non schwa?«Chi vuole usare una soluzione linguistica sperimentale lo può fare, chi non vuole può evitare. Il tema è che all’italiano manca una forma priva di genere che invece esiste, per esempio, in inglese. Quello che ricercano le persone che per una serie di motivi non si riconoscono nella divisione binaria maschile e femminile, non è identificarsi in un terzo genere calderone, ma trovare il modo di omettere questa informazione».Lei lo usa.«Ci sono parti della nostra società che a oggi, socialmente e linguisticamente, sono invisibilizzate. Nella comunità Lgbtqia+ ci si interroga da anni su come ritrovare corrispondenza fra la complessità dell’identità di genere umana e ciò che la nostra lingua può rappresentare. C’è una questione che è a monte di tutto questo ragionamento: facciamo un po’ fatica a vedere quello che non fa male a noi, che sia il gradino sul quale si pianta la sedia a rotelle o l’assenza di fondotinta per le nuance più scure di pelle, che può sembrare una cosa aleatoria, ma non lo è se sei una donna nera che si vuole truccare».L’italiano non ha le sue regole?«La lingua non è solo un insieme di regole, ma un sistema in movimento e il cambiamento linguistico è assolutamente naturale: i vocabolari si basano sull’uso delle parole. Il punto è che la comunità tutta si accorge di una parola quando arriva ad avere una frequenza abbastanza rilevante. I femminili professionali, per esempio, al contrario di quanto si crede, sono molto antichi: perfino la Madonna nelle preghiere è avvocata nostra. Ministra c’era già in latino».A proposito di femminili: la statistica Linda Laura Sabbadinidice che lo schwa cancella anni di battaglie contro il maschile sovraesteso.«Sabbadini sovrappone due istanze diverse: non è che si debba smettere di dire assessora o sindaca, ma ci sono altre situazioni in cui farebbe comodo avere a disposizione una forma priva di genere. Secondo me l’errore concettuale di una certa parte del femminismo è quello di vedere queste due istanze in contrapposizione invece che in continuità».Ma lo schwa o le formule simili non rischiano di contraddirsi diventando a loro volta escludenti?«Se io non uso lo schwa in modo regolare è perché ne riconosco iDa una parte le istanze della cultura woke (parola che deriva da “sveglio”, “resta vigile sui diritti”): definire in modo radicale un nuovo linguaggio che sia in grado di rappresentare ogni minoranza. Dall’altra l’atteggiamento reazionario che fa della lotta al politicamente corretto uno strumento politico.Esiste una terza via?Si può ripensare il linguaggio senza cedere all’estremismo di una delle due parti? Questa serie apre il dibattito.limiti e le difficoltà: una cosa è se ne trovi 3 in un articolo di 15 pagine una cosa è se ne trovi 30 in una pagina.Io non voglio diventare poco comprensibile, per questo nei miei saggi preferisco, quando possibile, usare parole semanticamente neutre, come persona, soggetto, essere umano o nomi collettivi come cittadinanza. Però trovo bello che oggi lo schwa compaia nelle scritte sui muri: ci dice che è un’istanza che parte dal basso».La questione agita molto anche il campo progressista. Una delle contestazioni è: i problemi sono ben altri.«Ma qual è il problema sommo di cui tutte, tutti, tutt*? dovremmo occuparci? Non dobbiamo cedere aquesta narrazione in cui ci sono problemi di serie A e di serie B.Trovo anche un po’ ingiusto che nel femminismo ci sia chi dice che non abbiamo ancora finito di sistemare la questione femminile, per cui le persone trans devono aspettare il proprio turno. Come dice Judith Butler, è invece il momento di intessere alleanze a larghissimo raggio, perché alla fine l’oppositore comune è una visione tradizionalista della società che è contraria alle persone trans come alle donne, come alle persone migranti, come alle persone con disabilità e potrei andare avanti».Però anche Kamala Harris, come hanno detto su queste pagine Ian Buruma e l’intellettuale Bill Kristol,alla Convention ha glissato sulla questione woke.«Posso fare una premessa?».Certo.«Che cosa si intende per woke?Originariamente significa “sveglio”, “attento alle ingiustizie”, ed è diventato popolare con il movimento Black Lives Matter. Ma oggi ha subito una distorsione, diventando una parola tormentone.Quello che viene oggi etichettato con disprezzo come woke è un mix micidiale di manicheismo fanatico e ignoranza: è ragionevole pensare, come ha denunciato qualche tempo fa Telmo Pievani, che non si possa più dire vicolo cieco o elefante nano? Certo che no. Ma questo per me non è wokismo».Tornando a Harris?«Mi viene da pensare che sia una mossa strategica, non mi stupisce così tanto e capisco che su certe cose lei non si esponga troppo, nella speranza di intercettare una fetta di elettorato in bilico. Dopodiché mi aspetto cose belle da lei se sarà eletta».Parlava di nani: però in un suo podcast concordava sul fatto di riscrivere le storie.«Da filologa mi fa aborrire l’idea che i testi siano ritoccati, ma vedo la liceità dell’operazione in quelli per l’infanzia, soprattutto nel caso che è stato tanto analizzato di Roald Dahl, ma a patto che restino disponibili anche gli originali. Le riscritture esistono da sempre. Io a suo tempo ho letto decine di classici scoprendo solo dopo che erano versioni per ragazzi».Ma lei non vede anche in chi ha le migliori intenzioni una tendenza al fanatismo?«Sì, per questo bisogna studiare, non agire di pancia. Su chi sia più spesso anti-woke non ci sono molti dubbi: persone privilegiate che possono concedersi il lusso di ignorare le mille discriminazioni che solcano la nostra società. Alcuni soggetti – maschi, bianchi, in posizione di potere – con i quali ho dibattuto recentemente, hanno difeso quasi con rabbia il loro diritto di usare il termine negro “perché viene dal latino niger”: è più importante l’etimologia o il fatto che ci sia una comunità nera che ha ribadito anche in Italia che da quel termine si sente offesa?».La direttrice editoriale di Fandango Tiziana Triana dice che il liberalismo americano, la terza via proposta dal filosofo Michael Walzer, si fonda sul razzismo: che ne pensa?«Una persona che non è direttamente toccata da una certa istanza, per esempio bianca in un mondo tradizionalmente razzista, può arrivare a riconoscere la parzialità del proprio punto di vista? Per secoli ne abbiamo avuto uno prevalente, dato per unico e universale: uno sguardo bianco, etero, eterocisnormativo, coloniale, abilista, maschilista. Il liberalismo americano è frutto di una visione molto omogenea, forse mancante di quelladiversity, cioè della varietà, di cui oggi io sento bisogno. Dobbiamo andare avanti».Ma qual è, se c’è, la terza via?«Mettersi in ascolto senza per forza posizionarsi da una parte e dall’altra, perché alla fine il posto più figo dove stare è spesso nel grigio: il grigio è la complessità».