Corriere della Sera, 10 settembre 2024
L’ultimo romanzo di Richard Ford
Nelle ultime pagine di Per sempre, Frank Bascombe – ex giornalista sportivo, ex scrittore mancato, ex agente immobiliare, ex donnaiolo, protagonista di cinque libri che hanno cambiato la letteratura americana degli ultimi decenni – reagisce al lutto per la scomparsa del suo secondo figlio maschio facendo quello che faceva tanti anni prima, quando morì il suo primogenito a soli nove anni. Fa volontariato, nell’unico modo possibile per un taciturno amante dei libri: legge ai non vedenti. Il giornale, di solito (tranne i necrologi e gli editoriali di destra). E, quando gli chiedono di portare un libro, sceglie Casa desolata di Charles Dickens e legge a alta voce quell’incipit strabiliante: «Nebbia ovunque. Nebbia su per il fiume, che fluisce tra isolette e prati verdi; nebbia giù per il fiume che scorre insudiciato tra le file di navi e le sozzure che giungono alla riva di una grande (e sporca) città. Nebbia sulle paludi dell’Essex, nebbia sulle alture del Kent. Nebbia che s’insinua nelle cambuse dei brigantini di carbone; nebbia sparsa sui cantieri e librata nel sartiame dei grandi bastimenti…». È uno di quei paradossi che piacciono tanto a Richard Ford: la più famosa ode alla nebbia della letteratura moderna declamata dal protagonista di un romanzo fatto di quei «momenti luminosi, momenti che possono cambiare il modo in cui il lettore vede le cose, e il modo in cui pensa» che subito il recensore del «New York Times» individuò 37 anni fa nella prima raccolta di racconti fordiani, Rock Springs, come la specialità dell’autore.
Se Robert Frost conosceva bene la notte, Ford ha enorme familiarità con la nebbia: Frank si fa educatamente beffe dei giovani scrittori americani di oggi che hanno successo perché trovano una spiegazione per tutto, mentre lui in 74 anni non ha quasi mai trovato la spiegazione di niente. Un’esistenza passata in mezzo alla nebbia, appunto: e questa è l’unica forma di illuminazione a lui concessa dagli dei (d’altronde quando Zeus nel libro XVII dell’Iliade decide finalmente di far svanire la fitta nebbia da lui inviata sul campo di battaglia, lo fa per favorire un massacro).
Per sempre (apparso l’estate scorsa negli Stati Uniti e nel Regno Unito, in uscita il 17 settembre in Italia, edito come tutto Ford da Feltrinelli: traduzione di Cristiana Mennella) è l’ultimo capitolo della saga di Frank Bascombe: Sportswriter (1986), Il giorno dell’Indipendenza (1995: vince sia il premio Pen/Faulkner sia il Pulitzer per la narrativa, cosa mai successa né prima né dopo), Lo stato delle cose (2006) e i racconti di Tutto potrebbe andare molto peggio (2014).
Frank Bascombe – come Nathan Zuckerman per Philip Roth, Duane Moore per Larry McMurtry, Rabbit Angstrom per John Updike – diventa per forza di cose l’alter ego del suo autore, anche se Ford ha spiegato a «la Lettura» otto anni fa in una lunga intervista nella sua casa del Maine che «Frank è fatto di linguaggio», e anche se non sente la sua voce di Frank come Henry James udiva quella dei suoi personaggi, un’idea otto anni fa ha cominciato a infastidirlo.
Allora aveva 72 anni e sperava di gustare una meritata pensione con la moglie Kristina nella bella casa in riva all’oceano sulla costa del Maine.
Ma che cosa succederebbe, pensò Ford, se Frank si trovasse a accompagnare suo figlio malato prima in clinica per una cura sperimentale e poi in un ultimo viaggio attraverso gli Stati Uniti? Inesorabilmente, ecco prendere forma un nuovo romanzo. E Ford è tornato al suo mestiere: la sveglia alle cinque e trenta, la scrittura. «Non vorrei vivere così a ottant’anni», disse allora. E invece, adesso ha proprio ottant’anni (portati mirabilmente) e sta per arrivare in Italia (a Milano, Pordenone e Rovereto) a presentare Per sempre.
Nel romanzo (in originale Be Mine) vediamo Paul che ne Il giorno dell’I ndipendenza era un adolescente traumatizzato dalla morte del fratellino e oggi è un quarantasettenne malato di Sla. Cerca in una terapia sperimentale della Mayo Clinic un’estrema possibilità di salvezza. Frank lo accompagna e poi parte insieme con lui in uno dei classici viaggi attraverso l’America durante un periodo di festa (San Valentino) com’è tradizione per i libri del ciclo bascombiano (Pasqua in Sportswriter, il 4 luglio ne Il giorno dell’Indipendenza, il giorno del Ringraziamento ne Lo stato delle cose, Natale in Tutto potrebbe andare molto peggio).
È un libro sull’amore. Ha scritto in passato Ford (Tra loro): «Sono stato fortunato ad avere due genitori che si amavano, e in mezzo a quel grande, quasi incomprensibile amore, sono riusciti ad amare me. L’amore come sempre conferisce bellezza» e Frank ama il figlio di un amore fatto di strana complicità tra eccentrici, di comprensione se non proprio di accettazione delle differenze, spesso radicali, tra padri e figli. E – su Internet li chiamano spoiler – anticipiamo che Ford non crede nei miracoli: Paul, malato incurabile, alla fine del libro muore. Muore in piena pandemia mentre Frank è a poche decine di metri da lui, non al capezzale ma in auto con la figlia, ad ascoltare la partita di baseball dei Red Sox che perdono contro gli odiati Yankees: niente miracoli, in questo libro. O meglio, un miracolo c’è: Frank continua a vivere, nel suo modo sgangherato, spiegando ai lettori che ancora si ostinano a cercare nei romanzi le risposte ai problemi della vita che quello è il compito del self-help – e se va bene i libri possono indicarci le domande giuste, solo quelle.
«Catturare l’ineffabile», ci ha insegnato Nanda Pivano, è il talento di Ford (che lei aveva annusato subito, sul pronti-via, quasi mezzo secolo fa). Una contraddizione in termini, un mestiere impossibile – anche alzandosi prima dell’alba ogni mattina.
Un altro paradosso? Ford, che attraverso la sua carriera ha raccontato con straordinaria profondità e verve inimitabile il rapporto tra padri e figli, di figli non ne ha avuti. Ricordava però Harold Bloom che neppure Jane Austen ne a